Alberto Pasolini Zanelli
“Il nemico del mio
nemico è un mio amico”. È una massima vecchia di secoli, cinica ma pratica, che
quasi tutti i belligeranti adoperano, più spesso senza citarla. A quanto pare,
però, difficile da applicare in Siria, nel punto focale di una guerra che
dilaga in tutto il Medio Oriente ma che sembra aver trovato laggiù un nuovo
punto focale. In quei deserti quasi tutti hanno un nemico o più, le alleanze e
le inimicizie sono rapidamente mutevoli anche se su uno sfondo di odii
millenari. Ma il tarlo odierno pare proprio il più chiaro e nitido: i fondatori
del nuovo Califfato (nipoti ideologici di Bin Laden) hanno dichiarato guerra a
tutti: governi, nazioni, appartenenze religiose, senza concedere, né a parole
né soprattutto nei fatti, alcuna possibilità di compromesso: in pochi giorni i
suoi adepti hanno massacrato dei musulmani di una setta dissidente, sunniti
quanto il Califfo ma dalle fedi “impure”, più dei cristiani in quanto tali e
infine un giornalista americano, più ancora colpevole come americano che come
giornalista.
Tutto questo è
accaduto su suolo siriano anche se come rappresaglia per l’esito di una
battaglia che si è svolta su suolo iracheno. Il governo Usa, di conseguenza,
non poteva rispondere a tale atto particolarmente barbarico con una serie di
atti di guerra, mandando aerei da combattimento a disperdere quei “guerriglieri
di Allah”, ad aprire una via di scampo ai perseguitati e ad estendere la zona
di operazioni belliche da un pezzo di deserto sotto la sovranità di Bagdad a
quell’altro su cui dovrebbe sventolare la bandiera di Damasco, proprio contro
l’esercito ufficiale siriano. Ne deriverebbe dunque un’alleanza di fatto,
fondata su un campo di battaglia, fra almeno due dei nemici dei jihadisti, in
perfetta rispondenza a quella regola “nemico + nemico = alleato”.
E il più in fretta
possibile, poiché il vantaggio è mutuo nei combattimenti, nella disponibilità
di armi e soprattutto nello scambio di informazioni “fresche”. Naturalmente con
difficoltà peculiari: il governo e il potere a Damasco sono tutt’altro che amici
degli Stati Uniti, anche se la
Siria è scesa in campo come alleata degli Usa in entrambe le
guerre contro l’Irak di Saddam Hussein. Oggi però l’America appoggia in molti
modi (gli unici proclamati e altri clandestini) i ribelli in una guerra “civile”
in corso da più di tre anni e che ha già fatto quasi duecentomila morti. Gli
insorti ricevono aiuti diplomatici e altri più concreti, che vanno dai
rifornimenti alle “armi non letali”, alla rinuncia imposta all’arsenale di
“armi di distruzione di massa”, a cominciare dai gas.
Tutto questo non
solo per volontà di Washington ma con un consenso quasi mondiale. Solo la Russia si è mossa quando l’apertura
di un conflitto ufficiale pareva imminente, bloccandola con una soluzione cui
nessuno ha osato dire di no. Ma la guerra civile è andata avanti e anzi, da
poco meno di un anno, a favore delle forze governative, che hanno recuperato
buona parte del territorio perduto e a lungo controllato dagli adepti della
“libera Siria”, sostenuti dall’Occidente ma che hanno perso vigore e, forse,
entusiasmo. La dissoluzione di parte delle formazioni di ribelli “democratici”,
più l’usura delle forze governative, ha creato dei vuoti in cui si sono
inseriti i guerrieri del Califfo, che attaccano dove possono i nemici che
trovano. L’ultima loro conquista, un importante aeroporto, ha visto la rotta
dei fedeli del dittatore Assad, proprio nel momento in cui a Washington si
accendeva il dibattito se l’America debba collaborare militarmente con tutti
gli eserciti e le milizie siriane contro il nemico comune, più forte e più
temuto: quello jihadista sotto le bandiere del Califfo.
Da parte del
Pentagono pareri e suggerimenti sono prevalentemente positivi. Ai militari
sembra perfino ovvio seguire l’antico dettame secondo cui il nemico del mio
nemico non può non diventare, almeno temporaneamente, il mio alleato. Però i
politici non la pensano così e Obama pare incline a schierarsi con loro: un
portavoce del Dipartimento di Stato ha anzi “assicurato” che l’America non
intende condurre sforzi militari congiunti con il regime siriano. Il Califfo
potrebbe dunque stare tranquillo., perché i suoi nemici continuerebbero ad
agire scoordinati. O addirittura a combattersi.