Alberto Pasolini Zanelli
Adesso è ufficiale. Doppiamente,
anzi. Sono risuonati quasi contemporaneamente, ieri, i due segnali: si è
abbassata la bandiera, si è esploso il colpo di pistola. Più adatto
probabilmente quest’ultimo per il caratterino di Donald Trump o almeno per il
suo stile di candidato e di presidente. Non è il segnale ufficiale, che verrà
alla fine dell’anno con tutte le forme per l’inizio delle primarie per l’elezione
del 2020, ma in pratica la battaglia è cominciata adesso e il primo a scattare
(o a colpire) sono stati, per il presidente in carica, due organi dello Stato,
impersonati da due suoi simpatizzanti, entrambi protagonisti silenziosi di
quasi tutto il 2019: Robert Mueller, presidente del comitato investigativo del
Senato, e Richard Barr, suo portavoce non ufficiale. Il primo ha lavorato mesi
a vagliare indizi e prove sulle asserite violazioni della legge che Trump
avrebbe commesso e che erano state riassunte in una parola: Russia, ad indicare
le iniziative che Mosca e come protagonista Putin, avrebbero condotto nel 2016 per
danneggiare la campagna elettorale della candidata democratica Hillary Clinton
e favorire, di conseguenza, il suo avversario Trump.
Su queste basi l’opposizione
democratica aveva cercato di costruire un edificio solido e coerente, che “consigliasse”
il presidente a dimettersi o ad astenersi da una campagna per il secondo
mandato. O addirittura ad affrontare il letale e umiliante procedimento dell’impeachment, che “distrusse” negli anni Settanta
Richard Nixon. Prove dirette e specifiche non c’erano, ma numerose erano le
indicazioni basate sul suo passato e presente e insomma carattere, in un
dibattito che è stato a lungo corale, fino a che l’uomo della Casa Bianca, basandosi
su suoi legittimi poteri, ha trasferito la battaglia negli uffici discreti e
silenziosi di Mueller, che ha lavorato per lunghi mesi senza dare notizie o
indiscrezioni. Gli indizi si sono alternati, la lentezza delle indagini è parsa
indicare una sentenza negativa, un’accelerazione è stata escogitata con l’incarico
a un altro magistrato, Barr, di comunicare un “riassunto” provvisorio,
contemporaneo ai processi in corso alla Corte Suprema contro numerosi
collaboratori di Trump, che sono stati quasi tutti condannati l’uno dopo l’altro,
ultimo Michael Cohen, avvocato personale del presidente. Ma quando è uscito il rapporto
di Barr da cui si poteva sintetizzare una prevalenza delle intenzioni
assolutorie, subito contestate, ma senza successo. Quando è arrivato finalmente
il verdetto della Commissione Mueller, esso ha confermato e rafforzato la propensione
alla “innocenza”, in un rapporto, stavolta, lungo quanto il Mississippi. Non una
sentenza formale, ma più che sufficiente a rassicurare l’imputato e a far cadere
le braccia a quasi tutti gli accusatori. Che naturalmente hanno contestato
subito anche quel documento definitivo, ma più per dovere che per fiducia.
Ci saranno quindi ancora dibattiti,
ma l’interesse di candidati ed elettori si è in pratica già trasferito alla
prova della rielezione il primo martedì di novembre 2020. Non mancano nel
frattempo le critiche formali e “giuridiche”. E già pubblicano una richiesta
del Senato a Mueller e a Barr di rendere pubblica una porzione più generosa della
“sentenza”. Quest’ultimo ha reagito rilanciando l’accusa e affermando che i due
partiti percorrono sentieri differenti, giuridico quello repubblicano e
politico quello democratico; ma le differenze sono prevalentemente formali: in
realtà entrambi i percorsi sono stati scelti da entrambi i concorrenti e, quel
che più conta, da Trump in persona, che in un paio di giorni ha lanciato una
raffica “missilistica” di precisazioni, conferme, smentite, premesse e minacce.
La più contestata è la sua “confessione” fiscale, con l’esibizione di passivi
denunciati all’erario fra il 1985 e il 1994 che gli hanno risparmiato di pagare
tasse in tutto questo periodo. Lo scopo era ed è dimostrare che “anno dopo anno
l’attuale presidente ha perduto più denaro di ogni altro contribuente americano
nella storia”. L’anno più “nero” per Trump è stato il 1985 con 46 milioni di
dollari di perdite dai bilanci delle numerose case da gioco di sua proprietà. Cifre
tenute nascoste non tanto per risparmiare sulle tasse, quanto per dare l’impressione
di forza e genialità finanziaria di un businessman
che si preparava a gareggiare per la Casa Bianca.
Questi i dati a difesa, ma Trump ha
proclamato anche intenzioni e progetti “offensivi”, che vanno dalla ribadita
intenzione di “strozzare” ancora di più l’immigrazione a intenzioni di inasprire
i rapporti con la Cina, le polemiche con la Russia, esibizione di superiore
distacco nei confronti dell’Europa (ancora ieri il ministro degli Esteri Mike
Pompeo ha cancellato all’ultimo momento un incontro con la cancelliere Merkel)
per recarsi invece a Bagdad al fine dichiarato di inasprire le misure
economiche e militari contro l’Iran e anche il Venezuela.