Alberto Pasolini Zanelli
Aumenta di ora in ora la tensione
fra Stati Uniti e Iran annunciata poche ore fa dalla Casa Bianca in termini
particolarmente urgenti e minacciosi. Non è il primo passo che Trump compie contro
questo avversario che i “falchi” della sua amministrazione hanno preso di mira
da anni, particolarmente nei lunghi mesi che condussero alla firma di un
trattato tra Washington e Teheran a conclusione della presidenza del
democratico Barack Obama e degli illuminati sforzi del suo Segretario di Stato
John Kerry e con la partecipazione di Paesi alleati degli Usa come la Gran
Bretagna, la Germania e la Francia ma anche grandi potenze estranee come la
Russia e la Cina. Le lunghe trattative furono presiedute, si ricorderà, da un
rappresentante italiano delle alleanze europee, Federica Mogherini. L’ostilità
di una parte della destra repubblicana a Washington non si è placata neanche
dopo il cambio di potere, come era prevedibile in conseguenza degli addii al
potere del presidente democratico Obama e soprattutto di Kerry. La pressione
diplomatica è cominciata subito e apertamente. Trump appena assunto alla Casa
Bianca annunciò il ritiro dell’America da alcune fondamentali clausole dell’accordo,
seguito dalle prime misure ostili, nel campo economico e soprattutto nel settore
petrolifero. La posizione ufficiale degli Usa è da tempo che l’ostilità del
regime integralista islamico a Teheran potrebbe da un minuto all’altro compiere
azioni determinanti di un conflitto.
La tensione è però esplosa anche in
assenza di fatti nuovi rilevanti, anche a causa del fatto che il trattato elaborato
da una decina di Paesi è rimasto in vigore nonostante il ritiro degli Stati
Uniti. Gli incidenti si sono moltiplicati, anche se nessuno finora di una
gravità da casus belli. La zona delle frizioni immediate è come al solito il
Golfo Persico, principale strada dei traffici petroliferi. Ma l’argomento più
scottante è in realtà rimasto: la posizione diplomatica e anche militarmente
attiva dell’Iran dei conflitti in corso in Siria e in Irak dove reparti
militari iraniani, formalmente di volontari, sono stati attivi per anni contro l’Isis,
direttamente o attraverso una collaborazione con le forze armate dei due Paesi
e la spinta militare iraniana, sommata a quella russa, è stata in effetti
determinante per la liberazione dalle zone dove gli estremisti sunniti avevano
stabilito il proprio potere.
Anche l’America si è mossa nella
stessa direzione, ma in dimensioni minori. Dopo la comune vittoria gli
improbabili “alleati” hanno rifiutato di riconoscere i ruoli rispettivi. L’Iran
ha mantenuto la propria presenza armata e sta ancora aiutando il regime dittatoriale
e sunnita di Damasco. La tensione fra Teheran e Washington si è poi “ufficializzata”
con la cancellazione da parte americana di importanti clausole dell’accordo,
che sono state invece mantenute ufficialmente in vigore, oltre che dall’Iran,
da tutti gli altri Paesi firmatari, compresi gli alleati dell’America.
La tensione è tuttavia precipitata
nelle ultime settimane e giorni su altri motivi di conflitto, bilaterali e
prevalentemente economici e petroliferi, che sono oggi presentati da Washington
come più urgenti. Poche ore fa Trump ha annunciato e confermato la sua
decisione di rafforzare in maniera considerevole la presenza militare americana
nelle zone di “contatto” con l’Iran. La Casa Bianca ha parlato di una
spedizione di 120mila soldati (che si aggiungono agli 80mila già presenti) ed è
motivata ufficialmente da un allarme per “progressi” di Teheran nell’ambito nucleare.
Trump ha dunque capovolto la propria inclinazione di qualche settimana fa di
ritirare truppe dalla Siria, dall’Irak e anche dall’Afghanistan, che è un
problema antico e a parte ma che comunque confina con l’Iran. L’impegno non ha
una data, non è stato accompagnato finora da comunicazioni e trattative con il
Congresso di Washington, le cui reazioni sono finora decisamente negative,
anche e soprattutto perché la “svolta” della Casa Bianca viene considerata una
allarmante prova in più della continua espansione del potere del consigliere
politico-militare di Trump, John Bolton, che era stato consigliere di George W.
Bush al tempo della guerra all’Irak e che sembra formare oggi una “alleanza”
all’interno dell’amministrazione con il nuovo Segretario di Stato Mike Pompeo, militare
anch’egli fautore di azioni belliche contro Teheran. Il Congresso non è stato
ancora informato ufficialmente, ma si prepara a ostacolare l’iniziativa presidenziale.
Hanno già espresso il proprio parere, oltre alla Russia e alla Cina, i Paesi
alleati, per bocca del ministro degli Esteri britannico Jeremy Hunt, che ha
denunciato la spinta che misure ostili rafforzerebbero a Teheran proprio per la
“rinuclearizzazione”, cioè alla totale cancellazione degli accordi. Pompeo ha
collegato la crisi con l’antico auspicio americano della caduta del regime a
Teheran. “È difficile che otteniamo cambiamenti e concessioni, ma quello che
può cambiare è il regime per spinta popolare”. Un auspicio vecchio di decenni,
dal giorno della cacciata dello Scià a Teheran e dell’avvento di Khomeini e del
“rapimento” dei diplomatici americani.
Pasolini.zanelli@gmail.com