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Gli americani votano col portafoglio.


Alberto Pasolini Zanelli

Dovrà attendere più a lungo del previsto chi aspetta e spera in una qualche formula di armistizio a Washington fra il presidente Trump e l’opposizione democratica. Che nelle ultime ore ha dato segno di riprendersi dalla botta demoralizzante della formulazione del documento conclusivo firmato da Mueller dopo mesi di ricerca e di riflessioni. Invece di arrendersi, i democratici danno ora segno di passare al contrattacco. Su diversi fronti: dalla richiesta che venga resa nota la totalità delle conclusioni cui il “giudice” è arrivato e non il documento “ristretto” (si tratta comunque di qualche centinaio di pagine) che dovrebbe chiudere il “processo”.

Per ora questo non accadrà: di operazioni giudiziarie, invece, se ne è aggiunta una, contro il figlio del presidente, sempre per approfondire il suo coinvolgimento nelle “trattative private” con la Russia. Conteporaneamente si motiplicano le contestazioni a un documento teoricamente “secondario”, cioè la dichiarazione dei redditi di Donald Trump in una decina di anni prima che egli diventasse presidente. Il totale non poteva mancare di sollevare subito contestazioni, anche se non sorprese. Era previsto che l’attuale inquilino della Casa Bianca avesse in qualche modo ingigantito i suoi deficit di bilancio, onde ridurre quasi a zero il suo carico fiscale, contemporaneamente o quasi alle sue entusiastiche esposizioni del suo reddito e della sua forza economica, concepita per aumentare l’interesse e la valutazione positiva per la sua candidatura. Il supercontrollore Mueller ha deciso che si tratta di problemi separati che non incidono sulla campagna elettorale e sulla sua conclusione vittoriosa del 2016.

Ma contro questa “assoluzione” si è levato il presidente della commissione di valutazione e riforma della Camera, in pratica il numero due di questo ramo del Congresso subito dopo la presidente Nancy Pelosi. Il deputato Elijah Cummings ha affermato che Trump si è comportato “come se ci si chiedesse di metterlo sotto accusa per l’impeachment. Ci ha messo in una posizione in cui non possiamo fare a meno di darci almeno un’occhiata”. Una proposta sorprendente in questo momento, che non poteva non suscitare irate proteste dai legali della Casa Bianca, già duramente impegnati per bloccare la richiesta di una “subpoena” per dieci anni di controlli finanziari. Un aperto dibattito e forse una decisione sono in calendario per la prossima settimana.

La richiesta di Cummings ha trovato l’appoggio della maggior parte dei suoi colleghi di partito. Con una eccezione importante e interessante: Nancy Pelosi, presidente della Camera e di fatto in questo momento leader del Partito democratico, almeno fino a che quest’ultimo non abbia compiuto la scelta del nuovo candidato alla Casa Bianca. La Pelosi ha fatto sapere a suo tempo di non avere ambizioni di quel livello, se non altro perché ha compiuto 78 anni e intende conservare il più possibile la sua immagine di madre e nonna onesta, coerente e moderata, che le giova come leader di fatto della sezione del corpo elettorale americano che, pur criticando acerbamente Trump, intende evitare il prolungamento della situazione attuale di crisi e di “battaglia” nell’interesse nazionale. Il suo auspicio, più volte espresso apertamente, è che l’impeachment non sarebbe la migliore soluzione né per il Paese né per l’interesse del partito di attuale opposizione. La sua proposta è che Trump non va eliminato con metodi giuridici bensì sconfitto alle elezioni del novembre del 2020 con argomenti politici che diano una nuora impostazione alla direzione dell’America.

La Pelosi è anche preoccupata per il numero eccessivo di aspiranti alla candidatura presidenziale democratica, che li obbligherebbe a combattersi aspramente l’uno con l’altro, rendendo più difficile poi il ricongiungimento delle forze per la conquista della Casa Bianca. Infatti Trump, nonostante le ombre che si sono accumulate su di lui nel primo quadriennio che sta per concludersi, ha ancora due carte forti da giocare. La prima è una politica estera centrata sugli interessi esclusivi degli Stati Uniti anche a spese dei Paesi suoi alleati; una ideologia che finora non ha portato frutti. Ma l’altra carta è fortissima e senza possibili contraddizioni. È l’andamento dell’economia, che si avvicina a un record di tutti i tempi, in assoluto contrasto con lunghi anni di quella che gli economisti hanno definito “la Grande Recessione”. Una realtà che potrebbe confermare una convinzione antica: che “gli americani votano col portafoglio”.