The Zucconism of the day


“Via quel luogo comune, Franceschini! Porta più su questa frase, hai seppellito il lead nel secondo paragrafo! E non ti ho ripetuto mille volte che il pezzo deve già contenere il titolo bello e fatto per il redattore che lo passerà?” Trent’anni dopo, mi pare di sentire ancora la voce di Vittorio. Appostato alle mie spalle nella redazione di Washington di “Repubblica”, non resisteva a suggerire miglioramenti all’articolo che stavo scrivendo. Il suo, naturalmente, l’aveva già finito. Un po’ perché era velocissimo. E un po’ perché, mentre io dovevo fare la cronaca con tutte le notizie, lui scriveva il commento, concentrandosi sugli aspetti più importanti. Sebbene poi il suo commento contenesse, magari in due righe, anche le notizie. Era fatto così, il grande Vic, come l’avevo soprannominato: letto il suo pezzo, un lettore non avrebbe avuto più bisogno di leggere altro. Bulimico? Un po’, ma pure un fuoriclasse. Il suo difetto era semplicemente di essere troppo bravo. Quando gli chiedevo se sarebbe mai tornato a lavorare in Italia, rispondeva con una battuta: “No, perché se mi mandassero a una partita di calcio, avrei la tentazione di scrivere il commento, la cronaca e le interviste negli spogliatoi”. Ironizzava su sé stesso, ben sapendo che la prima regola di un giornalista è non prendersi sul serio: almeno quando ci sono colleghi nelle vicinanze. Ma diceva anche la verità, perché nessuno avrebbe scritto commento, cronaca e spogliatoi meglio di lui.
Ne aveva una al giorno, di battute del genere. Le chiamavo “Zucconism of the day”, un concentrato di umorismo e mestiere. Le avevo sentite per quattro anni al telefono, quando ero il corrispondente di “Repubblica” da New York e lui da Washington; poi faccia a faccia per due anni, quando lo raggiunsi come suo vice nella capitale americana. Ho continuato a risentirle ogni volta che ci incontravamo: ai summit internazionali, dove spronava noi cronisti più giovani a dare il massimo; alle Olimpiadi di Londra, dove recitava felice la parte del patriarca di una dozzina di inviati; nelle vacanze in Romagna, dove ci ritrovavamo talvolta d’estate, fra Milano Marittima, Cesenatico e le colline di Cesena, dove vive sua sorella. Sul lavoro o in ferie, era sempre era l’ultimo ad andare a letto, sorretto da una loquacità leggendaria, inarrestabile. Da corrispondente, certo, Vittorio Zucconi era stato dovunque: Bruxelles, Mosca, Tokyo, Parigi e appunto l’America in lungo e in largo, oltre a servizi da inviato in tutto il mondo, dal Kuwait al Vietnam. Eppure, in fondo a quell’anima cosmopolita c’era un pezzo (e un cuore) di Emilia, la mia stessa regione, dov’era nato nel 1944, “nelle retrovie della Wermacht”, come riassunse nel risvolto di uno dei suoi molti libri.
Ecco, un altro avrebbe scritto: “Nato in provincia di Modena”.  Invece lui: “Nelle retrovie della Wermacht”. Gli bastava un’immagine per tratteggiare un romanzo. Dategli 200 righe e il romanzo usciva allo scoperto. Provate a rileggere la sua inchiesta a puntate “dallo sbarco dei Mille al sacrario di Redipuglia”, per la quale fu richiamato per un mese in Italia. Una puntata a regione: e ognuna emanava il dialetto, i sapori, gli odori locali, come se la pagina fosse viva.  Pezzi da “manuale del giornalismo”, per usare una delle frasi fatte che Vittorio mi avrebbe censurato.
“Sono una ballerina di prima fila, se non faccio vedere le gambe, il giorno dopo la gente non torna a vedermi”, ammetteva. E i corrispondenti esteri, ancor più delle ballerine, temono di essere dimenticati, forse perché vivono isolati, lontani dalla redazione centrale. Una volta che si precipitò a Milano per visitare sua madre in ospedale, gli Esteri lo cercarono per un pezzo di 50 righe: saputo dov’era, il redattore capo disse che non era un problema, l’avrebbero chiesto a un altro, non stesse a disturbarsi. “No, no, ve lo faccio subito”, rispose; e lo scrisse (in un attimo). Per ragioni analoghe, l’ultima volta che ci siamo parlati, mi ha detto quanto gli avesse fatto piacere la telefonata di stima del nostro nuovo direttore, Carlo Verdelli, da poco insediato. Ma puoi stare tranquillo, grande Vic: non ti dimenticheremo mai.
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Anche noi non lo dimenticheremo.
La nostra non era amicizia ma consuetudine amicale. Ci trovavamo negli stessi posti di Washington, a casa degli stessi amici e Vittorio sollecitato a darci la sua impressione sui fatti del giorno, inanellava definizioni e previsioni con una arguzia incisiva e la capacita' di essere al di sopra di tutti grazie alla sua esperienza, al suo intuito , al DNA del grande Padre, alla sua capacita' di inventare e di essere sempre una prima Donna dell'informazione .
Anni fa ci onoro' della sua presenza a casa nostra quando Romano Prodi accetto' un nostro invito. La raccomandazione fatta dal sottoscritto era che la serata doveva essere "off the record". Zucconi fece le sue domande insinuanti e problematiche alle quali Prodi rispose con sincerita' confidando nell'onesta' del suo interlocutore che sapeva rispettare le regole del giornalismo anglosassone. Nonostante appartenesse ad un giornale, Repubblica, che del "off the record" non gliene poteva importare di meno pur di fare uno scoop.
Vittorio e' mancato nella sua Washington.
Riposi in pace.
Oscar
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Si sa sempre che dobbiamo morire

Ma quando la vediamo la morte da vicino ci colpisce sempre

È come se non dovesse mai venire! Ma è l’unica certezza della vita

Gli opposti continuano a danzare!


Erminia S.
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Caro Oscar, l’avevo conosciuto personalmente da voi in occasione del GP di Formula 1, a Pasqua del 2000, insieme a Enrico Cisnetto e ho continuato a seguirlo nei suoi scritti... che peccato!
Lucilla S.
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Che tristezza Oscar.
Una mente così non troverà sostituti. 
Un abbraccio 
Cinzia