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Anche per i Democrats “America first” significa “Divide et impera”?


La sfida a Trump: quel silenzio dei democrats sulle alleanze dell’America
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 09 febbraio 2020
Anche se Trump non è ancora sicuro di vincere le elezioni del prossimo novembre, è tuttavia generale convinzione che gli ultimi dieci giorni siano stati i più belli di tutta la sua vita politica.
Il Senato lo ha infatti definitivamente liberato dal procedimento di  “impeachment” che metteva a rischio il suo futuro. Un’altra non trascurabile soddisfazione gli è inoltre arrivata dal caucus dell’Iowa, dove non solo si è presentato ai seggi un numero di elettori democratici inferiore ad ogni previsione, ma nessuno dei candidati è sembrato raccogliere un condiviso entusiasmo da parte dei votanti. Ci mancava solo il pasticcio del conteggio elettronico per rendere Trump felice nel presente e fiducioso per il futuro.
Sentimenti che sono stati espressi in modo addirittura trionfante nel discorso dell’Unione, la cui eco è stata certo amplificata dagli errori dei suoi oppositori politici, ma anche da un’economia che gode di un momento favorevole, anche se i suoi avversari mettono in rilievo che il vento in poppa soffia ormai da undici anni e che esso è stato soprattutto alimentato dalla politica delle amministrazioni precedenti.
In questo quadro non ci si deve sorprendere che il gradimento dell’opinione pubblica americana nei confronti di Trump sia ancora in aumento.
Desta invece stupore il fatto che il primo dibattito elettorale del paese arbitro della sorte del nostro pianeta abbia trascurato la politica estera. Ne ha fatto un cenno fugace Trump quando, nel messaggio all’Unione, ha richiamato il suo piano per la pace in Medio Oriente, ma lo ha ricordato più per compiacere il suo elettorato che non per esporre le linee strategiche della politica americana in quella delicata regione.
Desta tuttavia sorpresa ancora maggiore constatare che la politica estera non ha avuto alcuno spazio nel dibattito tra i candidati democratici. È risaputo che ogni campagna elettorale si snoda sempre sui fatti domestici, ma qualche orientamento di massima sui temi vitali per tutto il pianeta dovrebbe pure essere espresso da coloro che si candidano a governare la più potente nazione del mondo.
I cittadini dei paesi alleati vorrebbero infatti sapere se i candidati alla presidenza interpretano la primazia americana (che nessuno di essi può evidentemente  mettere in dubbio ) nello stesso modo del Presidente in carica, che ha sistematicamente tolto ogni ruolo alle organizzazioni sovranazionali, non solo ignorando l’ONU, paralizzando il WTO e ritirandosi dagli accordi sul clima e sul nucleare iraniano, ma anche manifestando sfiducia perfino nei confronti degli alleati della NATO accusati, pur con qualche ragione, di garantirsi la sicurezza a spese degli USA. Alleati nei confronti dei quali Trump si è esibito nell’accentuare le differenze esistenti fra di loro con un’intensità tale da creare incertezza e sfiducia nei confronti delle future decisioni americane. Un’incertezza e una sfiducia che, tra l’altro, rendono politicamente più difficile l’aumento delle spese militari ripetutamente richieste da Trump.
Per capire il futuro della politica americana sarebbe cioè molto importante sapere se, anche per i democratici, il “divide et impera” sia un necessario corollario dell'”America First”.
Sarebbe ugualmente importante sapere se le sanzioni economiche e le regole fiscali, ora applicate in modo platealmente divergente rispetto alle norme internazionali, verranno ancora utilizzate dalla politica economica americana, servendosi del braccio secolare delle banche statunitensi.
Allo stesso modo tutto il mondo è ansioso di sapere come gli Stati Uniti si comporteranno nei confronti del loro duplice deficit.  Se cioè si gonfierà ancora il gigantesco passivo del bilancio federale, grande elemento di preoccupazione per tutta l’economia mondiale. Si tratta di un deficit fortemente alimentato dalle spese per la difesa che, dal 2017 al 2020, sono lievitate da 605 a 750 miliardi di dollari. E questo si lega all’interrogativo se l’aumento dei contingenti militari distaccati in ogni continente proseguirà in futuro e quale ne sia l’impiego in un periodo nel quale gli interventi militari all’estero sono sempre meno tollerati dall’opinione pubblica americana. Tutto il mondo si chiede infine se sia in preparazione una nuova strategia per porre un limite al deficit della bilancia commerciale, dato che tale deficit continua ad essere imponente nonostante le misure protettive recentemente messe in atto dal presidente Trump.
Nessuno di questi problemi è stato posto sul tavolo degli animatissimi dibattiti del caucus dell’Iowa e nemmeno si è fatto cenno alla direzione da imporre alla futura politica estera americana.
E tantomeno si è discusso se sia possibile proseguire a lungo con una politica nella quale ogni interlocutore è un nemico (permanente o temporaneo) a partire dalla Cina, dalla Russia e dall’Iran, per proseguire con Turchia, Germania, Messico e un seguito di paesi ormai senza fine. Una politica che ha avuto come conseguenza l’allargamento della distanza fra l’Europa e gli Stati Uniti ed un’alleanza sempre più  stretta fra la Cina e la Russia.
Ci auguriamo perciò che il seguito dell’infinita campagna elettorale americana tocchi anche questi temi. Nessuno mette infatti in dubbio il primario ruolo degli Stati Uniti: ci interessa tuttavia sapere se l’America First potrà essere in futuro ancora accompagnata dalla scelta di agire in solitudine, fatta propria dalla politica americana degli ultimi anni.