Alberto Pasolini Zanelli
Nello stesso salone di Washington
si sono aperti fra ieri e oggi due capitoli nuovi della storia americana: un
presidente è stato assolto definitivamente nel processo di impeachment
subito dopo avere esaltato i propri meriti nella prima fase ed essersi “vendicato”
della persona che, almeno nominalmente, lo aveva buttato nel gorgo del
processo. Donald Trump contro Nancy Pelosi e, tutto attorno, i compagni di
partito democratici di lei e gli aspiranti alla candidatura contro di lui, ufficiali
da poche ore. Nella memoria degli storici rimarrà, naturalmente, di più il
primo gesto, un discorso notevole anche per un oratore abitualmente aggressivo e
non noto per la sua modestia. Trump ha avuto vita facile per ricordare ai Suoi
e agli Altri il bilancio del suo quadriennio inaugurale alla Casa Bianca. Soprattutto
nelle tasche degli americani. È stata una presidenza felice nella forma più
elementare e più sensibile ai cittadini. Trump non ha avuto bisogno di
ricordare ai concittadini che l’America non è mai stata tanto prospera: capitali,
posti di lavoro, esportazioni, investimenti, novità tecnologiche. Succede spesso
a Washington e dintorni, ma non sempre e non è detto che questi tempi felici si
riportino sempre nella conferma del suo presidente. La politica estera è più
difficile dell’accumulazione di dollari e centesimi, meglio dire “miliardi”. Richiede
adattabilità, flessibilità e capacità di cambiare strada quando la prima via si
è rivelata problematica. È successo a Trump quello che era capitato a tutti i
suoi predecessori di questo lungo dopoguerra che coincide con l’“età americana”
nel mondo. Il Medio Oriente è come prima una miniera di complicazioni,
violenze, guerre che ormai è ritornato di uso definire per quello che sono e
spese. Più i lutti, che però in questo quadriennio sono stati soprattutto, anzi
quasi, sui fronti dei nemici convinti come l’Iran, mentre si è quasi risolta la
guerra in Irak e sono migliorate le relazioni con la Corea del Nord, cui questo
presidente sembra tenere particolarmente.
Ma il vero impero americano è stato
ed è quello economico, nonostante la crescente concorrenza della Cina. Di più
immediata soddisfazione per gli imprenditori e le famiglie dei lavoratori. E meno
tasse, soprattutto per i primi. Un bilancio così non può che rallegrare gli
americani e i loro governanti, soprattutto un presidente come Trump che non
esagera nella modestia. Insomma di capitoli neri ce n’è stato solamente uno, l’impeachment.
Di cui proprio finisce in queste ore l’ultimo strascico formale, l’assoluzione,
di cui Trump non ha neppure parlato in queste ore di commiato e di benvenuto. Egli
ha anzi potuto mettere nel cassetto gran parte dei toni sciovinisti e a tratti
razzisti nei confronti della gente di colore, cittadini americani o aspiranti
immigrati. Si è ben guardato, anche perché non ne aveva bisogno, di ripescare espressioni
come “Paesi da cesso” e preferenze etniche come quello suo sfogo di tre anni fa:
“Perché non ci mandano, invece, dei norvegesi?”. Questa volta dai “neri” gli sono
arrivati degli applausi. Il solo scambio di dispetti Trump l’ha avuto con la
padrona di casa, la presidente della Camera Nancy Pelosi, con cui non ha mai
avuto buoni rapporti, non dimenticando mai che è stata lei ufficialmente ad
avviare il procedimento di impeachment. Erano collocati una accanto all’altro
durante l’allocuzione presidenziale, ma non si sono stretti la mano. E quando
lui ha iniziato il discorso lo ha raccolto in una cartella e lo ha offerto a
lei. Che non ha avuto bisogno di non ringraziare per esprimere i suoi
sentimenti: ha aperto la cartella e ha lacerato uno dopo l’altro i fogli con il
testo. Guardando, in questa occasione, bene in faccia l’autore. E questa volta,
contrariamente alle sue abitudini, non si è portata dietro né i cinque figli né
i nove nipoti. Trump invece ha messo in mostra i suoi familiari, tutti. Gli altri
esponenti democratici pensavano alle nuove elezioni e attendevano il conteggio
definitivo della prima primaria, quella dell’Iowa, conteggio tormentato da una serie
di papere dell’app. In gara erano il decano del Senato, che si definisce
socialista e un quarantenne omosessuale e maritato.