Alberto Pasolini Zanelli
I democratici sperano molto sulla
loro seconda “primaria”, in calendario per oggi nello Stato del New Hampshire,
più popoloso e più “democratico” del passato e maldigerito Iowa: la prova elettorale
che in quattro giorni non è riuscita a produrre un risultato e ha spezzettato i
non molti voti validi. Il motivo principale è stato scoperto subito ma non così
le sue reali proporzioni. La colpa è stata sparsa un po’ in giro, ma è emerso
che quasi sicuramente essa è soprattutto di una macchina. Un computer, idolo
del nostro tempo e laggiù ha mostrato i più rischiosi suoi possibili difetti. Quella
macchinetta è presente anche nel New Hampshire, ma in un contesto fino a ieri
più sicuro. Quando è atterrato Donald Trump in persona. Non per partecipare a
un voto che è riservato ai democratici, ma per pronunciare una delle sue
numerose e intense allocuzioni patriottiche. Come minimo il discorso servirà a
spartire l’attenzione e quindi danneggiare i candidati del partito di
opposizione, che avrebbero invece fretta di sistemarsi e mostrare al pubblico, per
ora, le possibilità di ciascuno di fronte al sogno di riprendersi la Casa
Bianca, da cui non arrivano soltanto serrate promesse ma anche minacce dirette
e concrete, come si vede dalla serie di licenziamenti nella sede del governo
centrale. Ma i democratici per prima hanno, nel New Hampshire, la speranza e il
compito di duellare fra di loro e presentare agli elettori nella cinquantina di
altre primarie che attendono da qui a novembre, un ordine di forza e dunque di
speranza: ciò doveva verificarsi già nell’Iowa, ma come sanno ormai tutti non
ne è venuto fuori niente. L’appuntamento nel New Hampshire è soprattutto urgente
per Joe Biden, cui è stato affidato da molti commentatori il compito di ricucire
il Partito democratico, raccogliere i sogni e anche gli incubi di tutti o quasi
gli aspiranti alla Casa Bianca, con l’obiettivo, per oggi poco più che onirico,
di battere e cacciare Donald Trump.
La speranza si articola su più piani
e non può essere diversamente, dato il numero di ambiziosi. L’“operazione Biden”
rimane la più auspicata dai potenti del partito. Per raddrizzare la barca si
punta oggi su una “coalizione” fra l’ex vicepresidente ottuagenario dell’era
Obama e l’ultimo arrivato alla gara, un quarantenne senza esperienze su scala
federale ma soltanto locale, come sindaco di una città di medie dimensioni, veterano
dell’esercito, omosessuale, maritato. Biden è un riformista moderato, in
contrapposizione con Bernie Sanders, l’unico politico americano a proclamarsi
socialista, che da queste parti è quasi una parola oscena. Simile a lui nelle
idee ma più moderata nei toni è l’altra senatrice della Nuova Inghilterra,
Elizabeth Warren, docente universitaria di notevole cultura e più “mondana” dei
concorrenti fin qui nominati. Neanche lei giovanissima, ha un caratterino peperino,
messo in mostra anche ieri in un dibattito con un giornalista, di cui ha
criticato l’incompetenza, definendolo “un soldato di cavalleria, cane bugiardo
dalla faccia di cavallo”. La signora Warren può contare sull’appoggio di almeno
due candidati giovani: la senatrice del Minnesota, May Klobuchar, di recente
trasmigrazione in America dalla nativa patria baltica e di Yang, l’unico cinese
entrato finora nella politica americana. Questa è la coalizione alternativa. Forse
ce ne sono altre, però da inventare.
Se fallissero tutte, i democratici
sarebbero davvero molto depressi, anche se hanno una carta segreta: un
candidato che non partecipa alle primarie ma fa viaggetti nei punti caldi della
campagna elettorale. Non è un uomo di partito. Due decenni fa è stato democratico
e poi repubblicano e ha vinto in entrambe le prove, diventando sindaco di New
York con grande successo. Il suo “mistero” sono i miliardi, che spende come se
fossero meri milioni come i suoi concorrenti ed è pronto anche a passarli in
quantità a colui che sfiderà Trump. Che forse anche per questo ha deciso di
interrompere il festival democratico di oggi nel New Hampshire.