Alberto Pasolini Zanelli
Una nuova svolta, forse, nella
maratona elettorale americana, che si va configurando, almeno in questa prima
fase, come una serie di controffensive. Il bersaglio è in queste ore il brillante
vincitore nel Nevada, i “tiratori” mirano da sponde diverse, che non sono
propriamente quelle di rivali. Nel conteggio dei voti nel South Carolina chi ha
bisogno di rivincita diretta non è un candidato democratico (anche se questa è
stata la prima tappa della più popolosa primaria di quel partito), bensì un
democratico “nominale”, Joe Biden, e un repubblicano detentore del potere,
Donald Trump. Entrambi hanno subito, nel Nevada, una sconfitta inattesa e forse
preoccupante. Ci si aspettava una vittoria di Biden, come ex vicepresidente e
coinquilino alla Casa Bianca di Barack Obama oppure una frammentazione dei voti
democratici del genere suggerito dalle votazioni precedenti. Era quello che
sperava anche l’attuale presidente repubblicano che resta favoritissimo nel “finale”,
ma vede le proprie chance raddoppiate se a prevalere nei test democratici prevarrà
il candidato più profilato a sinistra, il senatore del Maine che è formalmente
indipendente, ma “pesca” in campo democratico. I candidati quest’anno sono una
decina, ma quattro sono le loro contrapposte strategie. Trump intende sfruttare
al massimo il capitale di un potere esercitato con coerenza e durezza quasi
senza precedenti e spera dunque che il partito d’opposizione rimanga indebolito
e frammentato nelle proporzioni iniziali e per di più “squalificabile” come
estremista di sinistra, almeno nel vocabolario politico americano in cui “socialista”
è considerata una parolaccia che ogni altro politico evita o dovrebbe evitare.
Una “finale” Trump-Sanders consentirebbe
all’attuale inquilino della Casa Bianca di confermarsi e rafforzarsi in misura
addirittura non paragonabile con quella della sua vittoria di quattro anni fa che,
come molti hanno dimenticato, egli ha ottenuto tre milioni di voti meno della
sua avversaria Hillary Clinton. Una prosecuzione dell’ondata di entusiasmo
democratico per Sanders al di là di una certa misura lo rafforzerebbe e lo
porterebbe, quando sarà nominato, a un livello comparabile su quello del presidente
uscente e quindi ristabilirebbe quell’alternativa fra i due partiti e impedirebbe
al leader repubblicano di completare la riforma dei contenuti e dei modi che è
il suo obiettivo finale. È convinzione generale (da destra, da centro e da
sinistra) che un duello Trump-Biden sarebbe per il presidente in carica
possibili rischi, mentre se egli affrontasse Sanders la sua vittoria dovrebbe
essere trionfale.
Ciò dipende da numerose incognite,
oltre alla delimitazione ideologica. Quella imminente nelle votazioni degli
Stati in questa fase è il fattore etnico, anzi razziale. Il Nevada è stato il
primo Stato nell’ordine a comprendere importanti minoranze di pelle e di
formazione. Mentre nell’Iowa e ancora di più nel New Hampshire l’etnia
prevalente e quasi esclusiva è quella bianca. Gli americani “di colore” hanno
cominciato ad emergere nel Nevada, la cui composizione è equilibrata: cinquanta
bianchi su cento e cinquanta di minoranza etnica, di cui trenta africani e
venti latinoamericani. Questi ultimi hanno votato quasi compattamente per
Sanders, mentre i “neri” si sono schierati
in maggioranza con Trump, cioè per l’estrema destra, scelta inedita. Le cose
sembrano andare diversamente, però, nel South Carolina, dove gli “africani”
sono la maggioranza assoluta e quindi hanno votato con “tranquillità”. Composizioni
etniche non identiche ma comparabili attendono i tre Stati più popolosi dell’America:
nell’ordine, New York, il Texas e la California. New York è da molto tempo democratica
e prevalentemente di sinistra (in particolare il suo sindaco, Bill de Blasio, “italiano”),
il Texas si sta spostando a sinistra in conseguenza del continuo afflusso di
migranti dal Messico (e attraverso il Messico degli Stati dell’America
Centrale) e la California ha un elettorato diviso o “alternativo: consegnò il
più largo plebiscito al repubblicano conservatore Ronald Reagan, ma ha sindaci
democratici sia a Los Angeles, sia a San Francisco e ha spedito la democratica Nancy
Pelosi confermandola presidente della Camera a Washington e avversaria accanita
di Trump. Questo insieme di Stati (più di metà dell’Unione) vanno alle urne a
breve distanza fra uno e l’altro e portano per questo il nomignolo di quelli del
Supermartedì. Messi assieme sarebbero naturalmente decisivi, ma sono la parte d’America
più popolosa e al tempo stesso di solito la più equamente divisa fra le due
tradizioni politiche in cui si articolano gli Stati Uniti.