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Obama a fumetti,



 

Alberto Pasolini Zanelli
Obama a fumetti, o quasi. Certamente a immagini. È così che ha scelto di raffigurarlo un quotidiano autorevole e intensamente politicizzato come la Washington Post nel tentativo di riassumere il suo percorso nel momento del suo discorso di addio ufficiale alla Casa Bianca. Le parole di commiato sono state serie, a tratti commosse. Sono comparse, non per la prima volta, lacrime sul viso dell’uomo che per otto anni è stato condannato ad essere il più potente del mondo. Le immagini sono più sobrie e inducono spesso, invece, al sorriso. C’è dentro tutto e anche il contrario di tutto. Barack Hussein Obama non ha scartato né rinnegato il suo nome e cognome completo che pure tanto è servito ai suoi nemici per corroborare la favola maligna che egli sarebbe musulmano e che la sua mamma bianca e anglosassone avrebbe scelto di volare da Honolulu nel Kenia per farlo nascere in Africa e vicino all’Islam. Sì, si chiama anche come Saddam Hussein, ma è cristiano e protestante ed è stato lui a fare uccidere Osama Bin Laden per vendicare i tremila morti di Manhattan. Ed era stato l’unico parlamentare americano a parlare contro l’invasione dell’Irak e nel contempo a rifiutare i termini tanto diffusi di guerra di religione. Uno delle immagini lo mostra a specchiarsi nelle acque del Potomac sullo sfondo del monumento a Lincoln a vedersi come lui col cappello a cilindro del gentiluomo ottocentesco. L’uomo bianco liberatore degli schiavi e ultima vittima di una guerra civile da lui gestita e voluta a quel fine, che vinse ma che nei centocinquanta anni da allora trascorsi non è riuscito a guarire o cancellare le cicatrici dei lineamenti secolari di una società che non può essere più definita razzista dal momento che ha eletto e rieletto un presidente dalla pelle nera ma che non ha dimenticato né le glorie né le pagine nere del suo passato, i pentimenti ma anche i risentimenti.
Obama si rimboccò con urgenza le maniche per rimettere a posto l’America e intanto diventò il modello di come il mondo vorrebbe che l’America fosse. Tutto il mondo o almeno i popoli. Plebiscitato dagli europei, egli sollevò nel Terzo Mondo entusiasmi da far impallidire i trionfi di John Kennedy: dal governo del Kenia che proclamò festa nazionale il giorno della sua elezione alla bicchierata dei suoi ex compagni di scuola a Giakarta, dal vecchio vescovo sudafricano Desmond Tutu che dichiarò di avere “voglia di saltare e ballare” ai giovani che letteralmente ballarono nelle più misere favelas di Caracas, il pianeta celebrò dopo mezzo secolo una nuova luna di miele con gli Stati Uniti. Attraevano o almeno tentavano Obama anche nell’Islam, cui egli aveva riservato una frase che molti interpretarono come una apertura: “Con il mondo musulmano cerchiamo una strada nuova, basata sul reciproco rispetto. Siamo una nazione di cristiani e di islamici, di ebrei e di indù e di non credenti, di tutte le culture che ci vengono da ogni angolo della Terra. I vecchi odii un giorno passeranno, le divisioni tribali si dissolveranno. L’America deve essere alla testa di questa nuova era di pace”. Senza lasciare cadere, naturalmente, la difesa contro il terrorismo, necessaria per la “costruzione di una pace difficile, senza utopie e senza ultimatum”. Con questa formula Obama voleva insomma distinguersi sia dai “sognatori liberali” con cui i columnist conservatori lo avevano dipinto durante la campagna elettorale, con la testa fra le nuvole e l’illusione di poter dissipare con gesti di buona volontà i pericoli del mondo” sia dai sognatori dell’altra sponda, i neoconservatori e gli altri repubblicani convinti che la democrazia si possa difendere con le armi, appiccicando su altri Paesi le etichette del Bene o del Male, restii a trattare con i regimi sgradevoli, mentre secondo Obama era dovere di un presidente degli Stati Uniti “trattare anche con i nemici”. Egli considerava i Paesi, le alleanze e perfino il terrorismo come meccanismi complessi mossi dal potere e dalla paura più che dalle ideologie. Obama credeva, forse ancora crede, nel potere della buona volontà e soprattutto della generosità. Certo è stato lui a far uccidere Osama Bin Laden, simbolo e capo di un feroce terrorismo che prefigurava l’Isis. Però ha saputo anche mostrarsi generoso ogni qualvolta ha potuto. Con il regime e la dinastia comunista di Cuba, perso – quando ha potuto – i prigionieri di Guantanamo e perfino, proprio l’ultimo giorno di potere, con quel soldato americano dai due sessi che, anch’egli da idealista, ha messo in giro le carte segrete del Pentagono.
L’America definisce se stessa, fra l’altro, nella scritta su uno dei suoi massimi edifici pubblici a Washington: “Il passato è prologo”, ma ci vuole del tempo perché passi. Obama è stato uno dei passi più lunghi. Un altro fotomontaggio lo mostra orgoglioso in piedi su una specie di monumento alla bandiera degli Stati Uniti che però oscilla, riflettendo fra l’altro il giudizio dei concittadini allo scadere degli otto anni di Obama: cinquanta su cento danno un giudizio positivo, l’altra metà è critica, anche severamente. Una pagella probabilmente ingiusta o almeno ingenerosa che non riflette tutti i pregi ma quasi tutti i difetti di una presidenza. Molti sembrano dimenticare che Obama è arrivato alla Casa Bianca assieme alla frana del crac finanziario ed economico più grave dopo la famigerata Grande Recessione scoppiata nel 1929 e indomita fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Obama ha capito di non poter ricorrere a un bis di Franklin Delano Roosevelt, ma in realtà si può sostenere che abbia avuto più successo lui: ha riportato lentamente e con pazienza l’America ai dati di allora. Un solido recupero, ma non un’avanzata capace di inorgoglire. Probabilmente per colpa di eventi in larga parte esterni che l’Uomo Nuovo non ha saputo o potuto gestire con la richiesta pazienza e fermezza. Ha sbagliato in Libia, ha oscillato in Siria, si è lasciato sospingere dai “falchi” che in politica estera non abitano solo nelle fila repubblicane. Soprattutto nella prospettiva dei rapporti con la Russia, che ha visto le non disinteressate offerte di Putin respinte o ignorate. E riaffacciarsi lo spettro della Guerra Fredda.