Alberto Pasolini Zanelli
L’America ha cambiato, forse, più
che un presidente. O meglio ha eletto un presidente che ha lanciato un nuovo
messaggio in buona parte opposto o almeno contraddittorio a quello che eravamo
abituati ad ascoltare ad ogni inaugurazione di un nuovo inquilino della Casa
Bianca. Repubblicani o democratici, i predecessori di Donald Trump avevano
parlato all’America intendendo che ad ascoltare fosse tutto il resto del mondo.
Avevano lanciato proposte differenti o addirittura alternative ma sommate tutte
su un ruolo della Superpotenza di guida per il pianeta, centrato su aiuti di
ogni genere (economici, militari, ideologici) ma anche su una ideologia
planetaria: l’America come numero uno nella forza di tutti i generi, generosa
ma anche severa nei confronti di chi non si dimostrasse all’altezza o non fosse
volonteroso abbastanza per seguire questi esempi.
Da Truman a Obama, in una
situazione mondiale evidentemente mutevole ma su direzioni costanti, il
messaggio era stato: fate come noi, vi aiuteremo, vi proteggeremo, purché
sappiate marciare nella nostra scia. Con ricette differenti: apparentemente più
generose quando il messaggio veniva da un presidente democratico, più limitanti
nell’accento nei repubblicani, che hanno guidato il meccanismo della Guerra
Fredda negli anni decisivi, segnati dal crollo del comunismo e dalle sue
conseguenze, dal sollievo dell’era Reagan al ritorno con George W. Bush a un
maggiore ruolo bellico con accento da missionario e infine, negli otto anni di
Barack Obama, a un impegno soprattutto economico con un rilancio dello
strumento delle sanzioni, compensato da una coerenza di messaggi politici.
Che adesso le cose stiano cambiando
è diventato chiaro solo dal discorso inaugurale di Trump, molto diverso non
solo dalle allocuzioni di ogni nuovo presidente, ma anche quasi irriconoscibile
rispetto al tono e alla sostanza nei discorsi elettorali del candidato
repubblicano. Quello che Trump ci presenta e ci propone è una svolta abbastanza
radicale sia rispetto alle ricette democratiche da Kennedy a Obama, ma anche,
ed è questa la maggiore sorpresa, rispetto alle ideologie repubblicane. Donald
Trump non è Carter o Clinton o Obama, ma non è neppure un Bush o un Reagan. Se
si può riassumere il suo messaggio, la sua promessa, il suo monito, la parola
che meglio lo definisce è populista. Riprende addirittura una formula che
risale a tre quarti di secolo fa: America first, coniata nei primi anni
Quaranta dalle correnti ostili all’intervento Usa nella seconda guerra
mondiale. America First stavolta ha un significato soprattutto economico: la
difesa dei posti di lavoro in America e non più esportati, un altolà alla
globalizzazione, un freno a una conduzione del Paese e del mondo appoggiata
soprattutto alle logiche finanziarie. Che hanno prevalso nella conduzione
dell’industria e del commercio americani, sia in salsa democratica, sia
repubblicana. Il solo riferimento preciso è alla Cina, ma il succo del discorso
riguarda tutti, anche indirettamente: Trump auspica e cercherà di ricostruire,
un mondo di patrie più che di protettorati, di sistemi economici e produttivi
dal forte sapore nazionale. È inevitabile che, almeno per ora, ad applaudire il
nuovo inquilino della Casa Bianca siano i movimenti europei di contestazione
agli stessi fenomeni che Donald Trump mostra ora di approvare e raccomandare.