Alberto
Pasolini Zanelli
La notizia è di
quelle di terz’ordine, paragonata ai grandi o almeno grossi temi che dominano
le cronache degli affari internazionali. O almeno così probabilmente pare a chi
getti uno sguardo al raid annunciato dal Pentagono che è riuscito a eliminare
un esponente, sia pure di secondo piano, dell’Isis. Nelle stesse ore operazioni
militari ben più robuste sono in corso, con il determinante appoggio Usa, in
Irak, particolarmente ma non soltanto nella zona intorno a Mosul. Però il cospiratore
eliminato non era attivo in Irak bensì in Siria e questa è una sorpresa che
potrebbe anche indicare una possibile svolta nelle strategie del Pentagono e
soprattutto della Casa Bianca negli ultimi giorni della gestione Obama. Perché
secondo ogni logica militare la guerra in Siria dovrebbe essere considerata
ormai conclusa e operazioni locali e collaterali non sembrano poter influire su
un verdetto che è già stato scritto: la sconfitta del Califfato ad Aleppo e
dunque a Damasco che, confrontata alla situazione ancora confusa a Mosul e a
Bagdad, separa l’organizzazione jihadista, teoricamente sovranazionale,
nuovamente in due (ma forse tre, quattro o ancora di più) forze a carattere
nazionale. Una diversità che può non sembrare importante ma che sul piano
locale ma due verdetti contrastanti sulla scacchiera mondiale se non
addirittura planetaria. In Siria ha vinto la Russia, in Irak, l’America è di
nuovo costretta a combattere e ha però interesse a mantenere un’apparenza
sovranazionale.
Ma quello che è più
sgradito a Washington è che questa soluzione militare coincide e conferma con
un giudizio strategico e dunque anche politico, che riporta a uno dei terreni
di scontro nella Guerra Fredda. Prima che l’Unione Sovietica sprofondasse nella
sua crisi letale prima economica e poi strategica, la divisione e la
spartizione rivelavano che il Medio Oriente in genere era sotto tutela
americana con l’eccezione appunto della Siria, regione di influenza, quasi di
protezione, russa, dall’unica base navale di Mosca nel Mediterraneo ai rapporti
preferenziali fra i governi. Dopo la decolonizzazione ideologica e strategica dell’ultimo
decennio del ventesimo secolo e poi della ritrovata rivalità se non più tra due
Superpotenze, almeno tra la Superpotenza e una Grande Potenza.
Nel frattempo
molte cose sono accadute ma principalmente l’eruzione del fanatismo estremista
islamico sulle rovine disseminate nel Medio Oriente dall’esperimento della
Primavera Araba e il conseguente nuovo inasprimento dei rapporti fra Washington
e Mosca. Gli Stati Uniti hanno prevalso finora soprattutto sul piano economico
e finanziario, la Russia si è rifatta almeno in parte con iniziative
soprattutto militari, dalla Georgia alla Cecenia e adesso alla Siria. Il
bilancio complessivo, quello reale, vede dunque vincitore per ora Vladimir Putin,
sconfitto Barack Obama e aperto a ogni sviluppo il ruolo inedito di Donald
Trump. Con la contraddizione non solo apparente delle profferte di amicizia
avanzate e ricambiate fra il Cremlino e la residenza provvisoria del presidente
eletto in un maxi albergo di New York in contrasto sempre più acuto fra le
polemiche suscitate e le rappresaglie costruite sulla base delle accuse
americane alle indiscrezioni russe durante la campagna elettorale Usa. Quello
che gli Stati Uniti possono aver perso in Medio Oriente potrebbe essere più che
compensato dalle risorse di una rinnovata tensione sul piano non più regionale
ma mondiale e non più nella contesa del potere ma su un terreno ideologico. Il
calendario e adesso ormai anche l’orologio scandiscono i tempi della
riunificazione a Washington con l’ascesa al potere di Trump e il pensionamento
di Obama. Ma il Partito democratico è ormai non più il suo ma sembra ricadere
nelle mani del vecchio establishment sconfitto nel suo progetto di
restaurazione sotto il cognome Clinton mentre i repubblicani, paradossalmente
vittoriosi in tutti i campi sotto la leadership improbabile di un modellino
della politica e vulnerabile per le sue esperienze private di tutt’altro campo,
continuano ad essere divisi come la campagna delle primarie. Combattuto da
tutti in nome di linee politiche tradizionali, Trump ha finito per vincere per
la scelta dell’elettorato, ma il suo successo non è e non potrebbe essere
ancora consolidato. Soprattutto in politica estera, dove attorno a lui si
stanno coalizzando gli innovatori, ma appaiono tuttora più deboli della Vecchia
Guardia, che soprattutto in politica estera pare ancora legata non alla
tradizione vittoriosa di Reagan e di George H. Bush, ma all’esperimento e alle
tentazioni di George W. Bush, emerse proprio nel Medio Oriente e laggiù presto
incrinate.