Trump parla e poi pensa. A Firenze direbbero che agisce a bischero sciolto.
In Mexico i grandi Mall americani sono deserti. La gente boicotta i prodotti USA ad ogni livello.
I messicani sentono molto l'orgoglio nazionale.
Oscar
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Alberto
Pasolini Zanelli
Scadono in queste
ore i primi dieci giorni della presidenza Trump. Troppo pochi naturalmente per
giudicarne l’impostazione, ma abbastanza per farsi l’idea del ritmo. Ci si
aspettava che Donald Trump fosse l’opposto di Barack Obama per molti motivi, a
cominciare dal fatto che quello era democratico e questo è repubblicano. Si
sospettava anche che quello fosse un tantino troppo riflessivo e questo più
impetuoso. Ma le previsioni sono state ampiamente superate. Il nuovo presidente
ha cominciato la sua camminata che potrebbe durare otto anni di corsa, con più
decisione e recisione che, a quanto pare, riflessione. Obama studiava un
problema. Dopo qualche mese faceva conoscere la propria opinione generale, dopo
mesi o addirittura anni ne deduceva una linea di azione.
Donald Trump
sembra avere le qualità o i difetti opposti. Ha i riflessi pronti, ma ha dato
l’impressione in questi giorni di essere un tipo di quelli che prima parlano e
poi pensano. Le decisioni che ha preso sono solo in parte sorprendenti, ma lo
sono assai come ritmo. E vedendo da un presidente non solo nuovo ma novellino
della politica, hanno suscitato reazioni a volte addirittura attonite e spesso
scettiche se non addirittura ostili in America e nel mondo. L’esempio più evidente
è quello del suo bando all’ingresso negli Usa dei profughi dal Medio Oriente.
Un gesto non privo di giustificazioni sulla base delle esperienze fatte finora
soprattutto dai Paesi europei del traffico di terroristi dalla Francia alla
Siria e viceversa o dalla Germania, Gran Bretagna e Italia, dall’Irak e da
altri centri di attività della Jihad. Se questa decisione ha provocato
reazioni, è in primo luogo perché è in contrasto netto con l’atteggiamento
dell’Occidente nei confronti dei profughi, cioè delle vittime delle guerre
islamiche in corso. L’opinione pubblica mondiale ha moltiplicato i propri
appelli umanitari, servendosi anche di immagini e di casi umani commoventi come
il Bambino di Aleppo. E adesso che i profughi vorrebbero arrivare dagli Stati
Uniti e incontrano invece un veto immediato quando parecchi erano già in
viaggio. Proibizione a chi? “Non ai musulmani in quanto tali”, specifica la
Casa Bianca un po’ in ritardo, bensì ai cittadini dei Paesi più tormentati dai
conflitti, senza discriminazione religiosa. Una precisazione in parte postuma,
comprensibile ma anche discutibile: non sono state infatti chiuse le porte ai
cittadini egiziani, sauditi e degli Emirati e le si sono sbarrate invece ai
cristiani perseguitati non dai governi di altri pesi islamici ma soprattutto
dai militanti dell’Isis o di Al Qaida.
Un interrogativo
che resta, anche dopo che la Casa Bianca ha cominciato a darsi da fare per
chiarire altri aspetti oscuri, dovuti in gran parte alla fretta: gli organi
incaricati di aprire e chiudere le porte sono stati in molti casi avvertiti
addirittura dopo i bersagli della misura, anche perché i comandi militari
competenti pare siano stati scavalcati dai consiglieri politici di Trump.
Conseguenze sono ancora oggi violente manifestazioni di protesta che si
moltiplicano nella capitale e nelle altre metropoli americane, ma soprattutto
negli aeroporti internazionali. Più le reazioni politiche, non soltanto quelle
attese nel campo democratico, ma anche, sia pure con differenti motivazioni,
fra i repubblicani, soprattutto i superfalchi come il senatore McCain, forse il
più esplicito avversario di Trump in Congresso. Altri denunciano il ruolo
importante che avrebbe assunto nella decisione uno dei consiglieri di estrema
destra, Stephen Bannon. Ma la fretta eccessiva è notata da tutti, anche perché
non è limitata a questa decisione ma riguarda anche un altro punto centrale del
programma di Trump: il muro alla frontiera con il Messico. Ancora prima di
entrare alla Casa Bianca il nuovo presidente lo aveva annunciato precisando che
le spese le avrebbe fatte il governo messicano. Quest’ultimo ha subito detto di
no, Washington ha annunciato un rimedio immediato: i soldi si troveranno
mettendo un superdazio sulle importazioni dal Messico. Che, hanno notato gli
economisti, in realtà a pagarla saranno gli acquirenti americani.