Nel 1984 l'industria automobilistica americana è stata colpita da uno tsunami di vaste proporzioni causato dalle auto prodotte e importate negli Stati Uniti dai giapponesi.
Per decenni le grandi marche americane (Ford, General Motors, Chrysler) si erano appisolate nella produzione di veicoli tradizionali che, a parte alcuni ritocchi estetici delle carrozzerie, erano praticamente gli stessi di anno in anno. Telai di acciaio, motori di quattro o cinquemila cm³, pneumatici che, a parte la fascia laterale bianca, facevano concorrenza a quelli degli autocarri.
Le macchine giapponesi erano bruttine a vedersi, con dimensioni limitate rispetto alle gigantesche 'ingozzatrici' di benzina americane. Del resto i consumatori degli Stati Uniti non volevano rinunciare al grande sedile posteriore sul quale sembra sia stata concepita una gran parte della popolazione del dopoguerra.
Ma la seconda crisi energetica rapidamente costrinse il mercato americano a ripensare al modo di produrre e al modo di vendere le proprie vetture. Le auto giapponesi, piccole e con estetica non gradevole, erano senza cambio automatico e con una cilindrata di 2000 c/c.
Ma rispetto alle concorrenti americane consumavano poco, particolare questo importante in tempi di crisi energetica ed in più avevano un vantaggio costituito dal nuovo sistema di post vendita.
In quegli anni erano frequenti le battute dei comici televisivi e radiofonici sul fatto che se uno accendeva la radio in una macchina americana scattavano i tergicristallo e viceversa. Un frigorifero non poteva durare più di sette otto anni e poi si doveva buttare, mentre un'auto avrebbe dovuto avere una vita non superiore ai cinque anni.
Le tecniche di marketing e post vendita introdotte dai giapponesi sul territorio americano erano in conflitto con la cultura della obsolescenza programmata.
A vincere sono stati i giapponesi, presto imitati dalla feroce concorrenza della Corea del Sud.
Quando poi le case del Sol Levante si sono rivolte agli stilisti italiani, i produttori americani hanno deciso di rivoltare come un pedalino sia i loro sistemi di produzione che quelli di commercializzazione, se volevano sopravvivere.
Nel frattempo in Europa il signor Michelin aveva inventato lo pneumatico radiale, la Citroen francese dal 1939 produceva una valida "tutto avanti", con la trazione spostata sulle ruote anteriori e diminuzione dei costi di produzione per la eliminazione del pesante albero di trasmissione tra il motore e le ruote posteriori.
A loro volta gli inglesi della Jaguar introducevano nelle loro vetture i freni a disco di derivazione aeronautica.
Si trattava innovazioni ignorate per anni dalle grandi case americane che non volevano mutare i propri sistemi di produzione per non aggravarne i costi. Ma lo tsunami giapponese ha sconvolto l'industria automobilistica americana. Al punto che oggi il classico motore a sei cilindri prediletto dall'acquirente americano e' in gran parte sostituito da un quattro cilindri in ogni grande marchio automobilistico statunitense.
La competizione sul mercato americano è all'ultimo sangue. La spietata concorrenza delle marche asiatiche che hanno costruito impianti di assemblaggio e produzione negli Stati del sud della Federazione ha determinato negli anni della crisi economica scattata nel 2008 la migrazione di migliaia di operai dagli stabilimenti di Detroit.
I licenziamenti di massa hanno convinto un numero consistente di ex dipendenti della Ford, della General Motors, della Chrysler, a mettere tutte le loro cose su un carrello e a spostarsi per tre mila km verso quegli Stati dove le imprese asiatiche assumevano con retribuzioni inferiori rispetto a quelle del nord-est, limitata assistenza sanitaria, ma soprattutto impegno a non iscriversi in alcun sindacato.
Le grandi marche automobilistiche sono state salvate dal presidente Obama che ha permesso di tamponare i problemi aziendali del momento, consentendo alla General Motors e alla Chrysler di salvarsi e rigenerare i propri programmi aziendali, cominciando dalla eliminazione dei top manager che non avevano preventivato le pesanti conseguenze della crisi.
Solo Ford aveva dichiarato di non aver bisogno degli aiuti statali ma di poter far conto sopra le proprie capacità di rinascita. Quanto alle altre due grandi aziende i fondi sostenuti dal governo sono stati restituiti a breve termine, interessi inclusi.
Oggi le grandi marche, comprese quelle di altissima gamma europea, hanno aperto stabilimenti per la produzione delle proprie vetture in nazioni che garantiscano il costo della mano d'opera inferiore a quello dei paesi di origine.
Questo spiega perché il Messico sia divenuto uno dei paesi nei quali vengono prodotte o assemblate auto delle note marche sia di gamma economica che di alte prestazioni.
Di fronte al porto di Vera Cruz in Messico sostano decine di grandi navi che attendono il turno per imbarcare migliaia di automobili di varia marca prodotte negli stabilimenti delle aree vicine.
Ed eccoci alla conclusione di questa riflessione storica: il presidente eletto Donald Trump ha minacciato le aziende americane di imporre pesanti dazi alla importazione delle vetture prodotte al di fuori degli Stati Uniti.
Significativa è stata la risposta del presidente della Ford che ha annunciato la cancellazione del programma di costruzione di un ulteriore stabilimento in Messico e di potenziamento di una struttura nel Michigan. Ma solo perche' non conveniva alla Ford.
Il neo eletto presidente americano alterna la sua politica economica fatta di minacce e zuccherini che consistono nella quasi promessa di riduzione delle tasse pagate dalle industrie americane.
Ovviamente si tratta di annunci plateali, molto graditi da quei milioni di americani conservatori che si sentono difesi dal nuovo Robin Hood miliardario.
In una visione di economia globalizzata le aziende devono soprattutto remunerare il capitale investito e garantire i propri azionisti. Minacce fatte con la conseguenza di intensificare una situazione confusionale hanno come effetto primario quello di scaricarsi sulla componente debole dell'impresa, ovvero sulla manodopera.
Il circo Barnum messo in piedi da questo singolare personaggio che andrà a ricoprire fra pochi giorni la posizione di uomo più potente del mondo lascia perplessi.
Oscar
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