Alberto
Pasolini Zanelli
Anno nuovo, vita
nuova. Oppure molto vecchia. Dipende da che sapore ha il vento di Guerra Fredda
che spira sull’America, o meglio sulla classe politica e che finora l’opinione
pubblica negli Usa accoglie con una calma che contrasta con l’eccitazione degli
uomini di potere. Si diffonde, anzi, l’impressione che le ostilità siano più
tra il vecchio nemico russo e gli avversari americani del presidente uscente.
Nella Guerra Fredda vera a ogni gesto o parola di ostilità seguiva immediatamente
una risposta egualmente aspra e spesso anzi più forte secondo i ritmi della
escalation che accompagna tutte le guerre.
In questo caso da
Mosca arrivano invece di risposte tese e minacciose dichiarazioni in gran parte
bonarie. Vladimir Putin a quanto pare ha riflettuto in fretta sull’esplosione
di Barack Obama e ha deciso che il tono che gli conviene è quello di una
incredulità perfino irridente. Gli americani chiudono ed espellono, lui invita
gli equivalenti Usa degli esponenti russi che vengono espulsi. Quando parla
della crisi lo fa accompagnandolo sempre con un sorriso neanche tanto ironico
bensì semplicemente incredulo. Negli ultimi giorni è arrivato al punto di
mandare gli auguri di buon anno a Obama, alla signora, alle figlie, come se
fosse un vecchio amico. Obama ormai è costretto ad attenersi allo sguardo
severo e alle parole che lo accompagnano. Egli cerca anzi non di convincere
quelli del Cremlino, ma si limita invece a cercare di mantenere vivo l’allarme
del pubblico americano, che finora sembra rispondere più volentieri ai toni del
presidente eletto, quel Donald Trump che entrerà alla Casa Bianca tra due
settimane. Qualcuno dice finalmente, perché lo spazio riservato tra l’elezione
e l’assunzione del potere è determinato dai tempi in cui al vincitore poteva
capitare di abitare in California e di dover arrivare a Washington a cavallo o
giù di lì. Nei tempi degli spostamenti lampo e delle informazioni in tempo
reale, i due mesi a doppia presidenza creano complicazioni che rischiano di non
giovare a nessuno dei due. Per il momento questa emergenza appare a molti
sproporzionata e quindi più favorevole psicologicamente a Trump che a Obama,
anche se il secondo ha dalla sua quasi tutto il suo partito democratico, che
sente arrivare una offensiva su tutti
fronti da parte dei repubblicani, che si vanno convincendo che le
strategie e le tattiche di Trump non sono poi necessariamente dannose. I
repubblicani si stanno riconciliando con un candidato che, prima di farsi
eleggere, ha quasi fatto a pezzi il Grande Vecchio Partito, trasformandolo in
uno strumento personale che in molti punti programmatici si sta riconciliando
con la ortodossia, soprattutto nei programmi di tipo economico e finanziario.
Dove permane una
rottura è proprio la politica estera e in particolare il giudizio su Putin e
sulle sue intenzioni. Fra gli esponenti repubblicani ci sono diversi falchi non
negoziabili come ad esempio il senatore McCain, che non ha mai veramente
accettato la fine della Guerra Fredda e che ritiene che l’America dovrebbe
approfittare dell’occasione del crollo dell’Unione Sovietica per impedire alla
Russia non più comunista di giovarsi della propria conversione. McCain non è il
solo né il più influente nell’ala destra del partito, quella che ha contribuito
anche a trasformare la visione di Obama, in certi aspetti irriconoscibile
dall’uomo che otto anni fa aveva predicato il superamento del passato per dare
spazio a una missione americana nel futuro del pianeta. Il presidente uscente
ha cambiato rotta, anzi la sta ancora cambiando; ma non sembra fruire dell’accostamento
alle posizioni dei concorrenti. Uno dei suoi punti deboli permane, agli occhi
dei falchi, quello che essi deplorano, cioè l’astensione di Obama da un
intervento militare in forze in Siria, che ha contribuito a permettere alla
Russia una chiara vittoria in quel settore, più completa e convincente degli spazi
rubati in Crimea e in Ucraina ma anche, per esempio secondo McCain, in Georgia
e in Armenia. Putin cerca evidentemente di recuperare più che può del ruolo che
l’Unione Sovietica ebbe e che non seppe mantenere. Mosca non è più una capitale
di una Superpotenza, ma il suo ritrovato zar vuole riportarla almeno al rango
di grande potenza, mentre la classe dirigente americana ha ultimamente cercato di
ridurla a potenza regolare. Una convinzione che arriva a sconfessare
un’intuizione che fu di un repubblicano conservatore come Reagan, vincitore
della grande e vera Guerra Fredda.