Alberto Pasolini Zanelli
Le novità non mancheranno certo
nelle primissime settimane della presidenza Trump. Nei fatti, nelle idee, nei
proclami, nelle reazioni, anche isteriche, delle opposizioni. Ma negli ultimi
giorni – si potrebbe dire ore – la rivoluzione di Donald (o meglio
controrivoluzione) ha cominciato ad investire terreni imprevisti e forse
imprevedibili, a lanciare o predicare innovazioni radicali, ma anche a estrarre
dai memoriali e dai libri di Storia problemi, progetti, parole e perfino nomi che
parevano destinati a contrassegnare pagine del passato. Vecchi protagonisti
rinnovati da un’imprevista attualità, nuovi programmi ma su vecchie formule e
perfino slogan di mezzo secolo o addirittura di un secolo fa. Quello delle
ultime ore non è stato ancora lanciato ufficialmente, ma il suo ritorno pare
imporsi. È un aggettivo: angloamericano. La formula di un’alleanza potente e
vittoriosa nella seconda guerra mondiale ma già collaudata con successo nella
prima. Angloamericano era la somma e la fusione fra l’ultimo dei vecchi imperi
e il primo dei nuovi.
Non poteva durare e non durò perché
era la formula di un trasferimento di potere, non di una fusione o addirittura
di una somma. C’era troppo divario di potenza fra Londra e Washington. Qualcuno
nella vecchia Britannia cominciò a rimpiangere quegli equilibri o i loro resti.
Il tentativo più recente ma senza successo fu compiuto e firmato da un premier
di nome Tony Blair, che pensava di avere trovato nell’avventura militare in
Irak la formula per rinvigorire la partnership nella vittoria in due guerre
mondiali. Non funzionò. Anzi fu un disastro. Sembrò dimenticata perfino la
nostalgia. Rinasce oggi prima nei fatti che nelle parole, come risultato della
coincidenza di due eventi politici indipendenti ma improvvisamente attualissimi
e collegati: un referendum in Gran Bretagna, un’elezione presidenziale negli
Stati Uniti. Vittima del primo fu il premier Cameron, reo di avere indetto una
consultazione popolare di cui non c’era bisogno, almeno non in quel momento e
che fu il suo suicidio politico. Il secondo quasi altrettanto imprevisto, fu la
conquista della Casa Bianca da parte di Donald Trump. Eventi non direttamente
collegabili, ma di cui si stanno sommando le conseguenze e indicando vie
d’uscita che parevano dimenticate.
Di Trump ci ricordiamo tutti anche
troppo, della sua intransigenza americocentrica, della acredine
dell’opposizione, di uno stile di governo totalmente inatteso. Ben poco il
vincitore parlò dell’Europa nell’esprimere le sue promesse. I nomi chiave
furono e tuttora sono America, Messico, Russia, Cina. E invece il primo leader
straniero ad arrivare a Washington è stata, in queste ore, la premier
britannica, Teresa May, erede senza rivali di un potere sgretolato,
interpretata dai più come soluzione temporanea ma che si è conquistata in poche
settimane una certa inevitabilità. Un altro premier di Londra al suo posto
avrebbe probabilmente cercato di fungere da mediatore. Lei ha subito scelto di
obbedire alla volontà popolare e di cambiare rotta, sacrificando l’opzione
europea e rilanciando una Britannia First parallela allo slogan America First
riesumato da Trump a Washington. Due voti che però promettono soluzioni
alternative. L’Inghilterra si è esclusa dall’Europa e ha perduto quello che
poteva sembrare un ruolo guida ma che era in realtà soprattutto un freno
all’esterno del vero potere europeo che continua a chiamarsi Angela Merkel.
Londra imbarazzata e forse indebolita vede però aprirsi una strada alternativa,
da ripescare negli scaffali di una nostalgia: un ritorno a un tandem di potere
mondiale, angloamericano, che può in parte sostituire l’Europa indebolita e
aiutare l’America isolata. Una nuova, o rinnovata, costellazione mondiale, più
concreta, meno sognante, più modesta come obiettivo ma giunta forse al momento
opportuno, come indicato da un calendario imprevisto negli inviti. Il primo
partner di Trump non è la Russia, né la Cina, né l’Europa ma l’alleato di altri
tempi: la vecchia Inghilterra. Che mostrerà presto i propri limiti ma che
intanto offre all’improvvisato e imprevedibile presidente Usa un partner o
perlomeno un appoggio in un momento di isolamento e di carenza anche nei nomi. Che
può ricordare gli anni della luna di miele fra due leader conservatori: Reagan
a Washington, la Thatcher a Londra. Con una differenza in più: che Donald
Trump, con il suo America First, assomiglia molto di più a Margaret Thatcher
che a Ronald Reagan.