Alberto
Pasolini Zanelli
La Befana è
tornata a casa con un sacco vuoto. Era pieno di veleni, la maggior parte se li
è incassati Donald Trump, qualcuno è rimasto da distribuire ai suoi amici e
nemici, ma il pieno se l’è fatto lui, a due settimane, ormai, dal suo
insediamento ufficiale come quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti.
C’era da aspettarselo, vista l’atmosfera che è regnata durante la campagna
elettorale ma si è inasprita invece di esaurirsi come è di regola a risultato
acquisito. Sotto al suo albero c’erano tanti sacchetti, i più delicati pieni di
carbone, gli altri di sostanze molto più tossiche. Li hanno spediti se non
addirittura fabbricati i suoi rivali politici, umoristi, commentatori sugli
organi di stampa o televisivi. Nulla gli è stato risparmiato e del resto egli
ha la pelle dura e una collaudata capacità di ferire a sua volta.
Solo il numero dei
nemici è soverchiante. Accanto a lui c’è praticamente solo un alleato, definito
come complice che non lo aiuta ma semmai accresce la tensione e le ostilità.
Parliamo naturalmente di Vladimir Putin, che a giudicare dalla frequenza delle
citazioni e degli assalti potrebbe essere catalogato come vicepresidente
eletto. Anzi il leader del Cremlino sta prendendo il posto, almeno nella
leggenda, che è stato di Barack Obama negli otto anni della sua presidenza,
soprattutto all’inizio quando molti credevano o fingevano di credere che egli
neppure fosse nato in America ma che la sua mamma bianca avesse per chissà
quale capriccio deciso di volare dalle Hawai fino al Kenya per dare alla luce
un bambino di sangue misto destinato a contestata ma reale fama.
Dicevano, di
conseguenza, che Obama fosse in realtà musulmano, una specie di infiltrato nel
mondo dei cristiani e dei bianchi. Tra coloro che mostravano di crederci, c’era
anche un uomo d’ affari newyorkese di nome Donald Trump. Colui che adesso è
punito dalla nuova leggenda: quella che lo definisce spia russa. Questo perché
Putin ha creduto che gli convenisse aiutarlo nel proprio interesse, pubblicamente
con attestati di stima generosamente contraccambiati e sott’acqua mediante
quella campagna di disinformazione condotta attraverso fantomatici hacker ufficialmente denunciati dalla
Cia e da altri organi di controspionaggio Usa.
Pubblicità
apparentemente confermata dalla risposta concorde di quel che entro due
settimane saranno i due uomini politici più potenti del pianeta. Oltre che,
paradossalmente ma non sorprendentemente, dallo spione confesso, Julian
Assange, boss di Wikileaks. Lui non dice dove ha pescato i testi incriminati,
ma nega che glieli abbia forniti Mosca. Ciò non indebolisce, almeno
ufficialmente, la linea dell’accusa, nutrita da asserzioni geopolitiche più
profonde che credibili, ultimamente l’asserita responsabilità della Russia negli assalti
terroristici dei jihadisti in tutto il mondo, che secondo polemisti di Washington sarebbe dovuta all’ostilità di Putin nei confronti della Cecenia.
Ipotesi
sorprendente, ma non più della reazione degli innocentisti, che scendono in
campo dalle fila dei più recisi combattenti della Guerra Fredda, dagli ultra
anticomunisti della rete televisiva della Destra, a Sarah Palin, che da
governatrice dell’Alaska affermava di conoscere più intimamente le trame della
ex Unione Sovietica perché poteva “guardarsi dalla finestra la Russia”,
distante appena un paio di chilometri. Un capovolgimento da destra altrettanto
curioso, anche se meno intenso e furibondo di quello opposto, che reca il
marchio ufficiale della Cia, che però ammette di non avere prove che
l’interferenza abbia avuto conseguenze sull’esito delle elezioni.
Ma adesso i
persecutori del presidente eletto paiono aver trovato un’altra arma che non sia
solo di parole ma possa essere invece un’efficace rappresaglia, quasi crudele.
Donald Trump sta per insediarsi alla Casa Bianca, a Washington, ma la sua
residenza e la sede dei suoi affari più imponenti è nella sua città natale, New
York. Avendo egli peccato tramite una vittoria elettorale, la rappresaglia
potrebbe essere perfettamente in carattere: colpirlo tramite un’elezione, a New
York. È una città ultrademocratica, di cui Hillary Clinton ha ottenuto in
novembre quasi l’ottanta per cento dei voti. Se si candidasse a sindaco,
potrebbe ripetere questo plebiscito e, dopo, rimboccarsi le maniche e far
vedere le stelle al rivale che ha sepolto i suoi sogni di Casa Bianca. La pena
è già spiegata in un articolo del New
York Times, che immagina ispezioni senza fine all’edificio della Trump Tower,
l’albergo extralusso da lui gestito. Difetti nelle cucine e nei bagni,
imperfezioni negli scarichi di acqua, occasionali carenze di latte nei bar, ispezioni
senza fine, multe, pubblicità negative, spettacoli quotidiani del Rockettes, il
famoso balletto che si è rifiutato di mostrarsi per i festeggiamenti
dell’insediamento del nuovo presidente. È l’uomo più potente del mondo, ma
vulnerabile in casa propria. Un dispetto spiritoso quanto perfido, che non lo
obbligherebbe a dimettersi né a togliere il saluto a Putin, ma consentirebbe a
Hillary di scaricare un po’ dei veleni accumulati dalla sconfitta. Non solo
contro di lui, ma verso supposti complici, dal direttore dell’Fbi che rese
pubbliche le rivelazioni sulle sue scorrettezze proprio alla vigilia delle
elezioni a un ex esponente democratico, Anthony Weiner, marito ostentatamente
infedele della principale dama di compagnia di Hillary, Huma Abedin. In questa
campagna il braccio destro potrebbe essere un ex candidato repubblicano alla
Casa Bianca, John McCain, che martella Putin rievocando il suo passato di spia
del Kgb, appesantendo così la portata degli assalti a Donald Trump, eletto
presidente degli Stati Uniti ma definito segugio scodinzolante del Cremlino.