Alberto Pasolini Zanelli
Prima di lasciare
il potere per la scadenza del suo mandato di presidente dell’Uruguay, Josè Mujica
ha fatto in tempo a compiere uno dei gesti che lo definiscono: ha dato il
benvenuto a un gruppetto di “immigranti” molto particolare: sei reduci dai
“piombi” di Guantanamo, detenuti in media dodici anni senza processo e senza
capi di imputazione, anzi già cinque anni fa scagionati e di cui le autorità
avevano raccomandato la scarcerazione come parte del programma di Obama. Della
promessa che egli aveva fatto appena eletto: chiudere quella che egli considera
una vergogna per l’America. Finora non ci è riuscito a causa delle numerose e
tenaci resistenze. Gli hanno permesso solo delle liberazioni a sgoccioli. E le
“deportazioni” in quei Paesi esteri, che li hanno accettati dietro rilevanti
compensi da parte di Washington, come risarcimento per il rischio.
Tranne l’Uruguay di
Josè Mujica. Lui ne ha fatto una questione di principio. Ha definito “codardo”
chi esita ad accogliere i detenuti, “ora che c’è negli Stati Uniti un
presidente che vuole riparare un’ingiustizia miserabile”. L’Uruguay non pone
restrizioni di nessun genere ai liberati: sono profughi e possono andarsene
quando e dove vogliono”. Mujica è così anche perché ha dietro una storia
personale straordinaria. Quei sei arabi erano stati accusati, a torto, di avere
rapporti o almeno di nutrire simpatie per il terrorismo. Mujica è stato un
guerrigliero. Un leader, negli anni Sessanta, dei Tupamaros. Sei ferite in
combattimento con le forze dell’ordine. Due evasioni, tre catture, quattordici
anni di carcere, dieci in cella di isolamento, due sul fondo di un pozzo “con
la sola compagnia di formiche e ratti”. Peggio che a Guantanamo.
Poi i miracoli in
serie. La dittatura militare si dissolse, l’Uruguay ebbe di nuovo libere
elezioni, i discendenti dei Tupamaros le vinsero, andarono al potere ma non lo
trasformarono in una versione della Cuba di Fidel Castro. Restaurarono anzi la
democrazia, senza rinnegare gli ideali passati. Mujica teneva nel suo studio di
presidente il ritratto di Castro e una lapide dedicata a Che Guevara, ma non
perseguitava gli oppositori e si era opposto anzi alle rappresaglie che i suoi
compagni chiedevano, alle denunce e alle epurazioni.
La “rivoluzione” la
fece in altri campi. Fece dell’Uruguay il primo Paese cntroamericano ad
autorizzare l’aborto e il primo nel mondo a legalizzare la marijuana, in
omaggio a una lunga tradizione di “secolarismo e democrazia sociale” e a un’alternativa
di sinistra libertaria allo statalismo di Cuba e del Venezuela, al populismo
dell’Argentina peronista e all’autoritarismo di Correa in Ecuador. Il suo
nemico ideologico rimane, secondo una formula cara al “Che”, “lo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo”, inteso in un senso egualitario:nle Repubbliche sono
venute al mondo affermando che “tutti gli uomini sono uguali”. “Una democrazia deve
rappresentare la maggioranza e io come presidente della Repubblica e dunque coloro
che hanno le massime responsabilità debbano vivere come vive la maggioranza dei
cittadini, non una élite minoritaria”.
Ed è quello che ha
fatto per tutto il tempo del suo mandato, con una coerenza che sfiora i limiti
della caricatura. Guida una vecchia Volkswagen. Fa colazione nei bar del centro
di Montevideo. Vive in una casetta campagnola di tre stanze di pietra grigia. Si
sforza con successo di essere un modello di frugalità, l’antitesi del potere. Quasi
egli sia stato un precursore, se non un modello, delle innovazioni di stile
portate avanti ora da Papa Francesco. Con un gradimento paragonabile. Una fama
mondiale non frequente nei leader di Paesi di dimensioni ridotte come l’Uruguay
e con un solido consenso popolare, confermato nella recente elezione del suo
successore: Tabare Vazquez, un oncologo che già era stato presidente per cinque
anni e che ha sconfitto il candidato giovane e dinamico del partito
conservatore, che aveva tentato di spacciare una versione sudamericana della
“rottamazione”. Grazie soprattutto al successo dell’economia: una crescita
annua del 6 per cento, rara di questi tempi nel mondo. C’è spazio per tutti,
anche per quattro “pellegrini” iracheni, un tunisino e un palestinese.