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Il Pentagono all'uomo che conta le mine



Alberto Pasolini Zanelli
Il passaggio delle consegne al Pentagono è deciso che dovrebbe essere imminente. In stile più burocratico che polemico eppure con qualche significato appena sott’acqua. Se ne va Chuck Hagel, l’uomo che ha conosciuto la guerra non da un ufficio ma sul campo (lo attestano le sue medaglie) ma che non è riuscito a far “passare” o ad articolare con abbastanza vigore i suoi progetti di gestione delle guerre nella tutela della pace. Arriva al suo posto, con ogni probabilità, Ashton Carter, laureato in Fisica, un uomo di studio e di riflessione, già viceministro della difesa e specializzato nella cernita delle armi necessarie in un conflitto. Insomma, faceva lo shopping per l’Esercito, la Marina, l’Aviazione, cercando di portare a casa gli strumenti più adatti a ciascun particolare tipo di conflitto. Il suo merito più noto è di avere accelerato la produzione e la fornitura di carri armati e veicoli corazzati con una protezione particolarmente adatta al tipo di minaccia alle truppe americane in Afghanistan e in Irak, cioè le mine stradali o le bombe delle imboscate ai lati delle strade. Forse dipende anche da questo se non ci sono pratiche dubbi sulla ratifica della sua nomina da parte di Obama: i repubblicani avevano fatto il possibile per intralciare il cammino di Hagel, non trovano nulla da obiettare del passato e della personalità di Ashton. Qualche democratico, poi, crede di poter leggere nel suo curriculum un segnale abbastanza coerente con la concezione di fondo dell’attuale presidente. Difesa in tutti i sensi del termine. Misura. Fare tutto il necessario e il meno possibile del superfluo. Difesa, soprattutto, nel curriculum dell’uomo che contava le mine e le corazze, nel momento in cui l’America, sul punto di chiudere il capitolo bellico aperto dalla strage terroristica dell’11 settembre 2001, si trova costretta ad aprire un altro processo, questa volta di reimpegno militare più o meno nella stessa parte del mondo.
Che non è entusiasmante e neppure troppo chiara. E che a qualcuno, proprio fra coloro che si vedono rispediti in un teatro di operazioni, non piace. Sollevare obiezioni non alla scelta di Ashton ma all’intera impostazione degli ultimi anni. A qualcuno come Mike Breen, che ha combattuto da Kabul a Bagdad e che insiste che il governo, dal Presidente in giù, non ha saputo finora spiegare ai veterani il perché e il per come dei loro sforzi e dei loro sacrifici. Essi “si chiedono: per cosa ho speso l’ultimo decennio della mia vita?”. “Ne è valsa la pena?”, si domanda David Rothkopf, autore di Insicurezza nazionale: la leadership americana nell’età della paura, un libro di domande pungenti. È un esame critico delle scelte di due presidenti in risposta al trauma dell’attacco di Bin Laden. Egli insiste nel chiamarla “età della paura” e nel denunciare che essa ha distorto le istituzioni e sconvolto le priorità politiche. “Non è stata certo una pagina d’oro della politica estera americana”. È stato un colpo così emotivo che l’America si è sentita obbligata a cambiare in un istante la propria visione del mondo, creando un senso di vulnerabilità senza limiti”. Molto maggiore del necessario, pensano i critici, perché ritengono che oggi si possa concludere che quella minaccia è stata sopravvalutata al punto da sconvolgere tutte le strategie venendo a costituirne la priorità e l’evento centrale. Una valutazione errata che ha prodotto sia gli eccessi degli anni di Bush, sia le correzioni di rotta a volte incoerenti da parte di Obama (“che voleva essere l’anti Bush però aveva paura di apparire debole”), e che adesso ci fa lasciare l’Afghanistan e reintervenire in Irak, nel timore che gli diano la colpa di un eventuale nuovo attacco terroristico.
È un timore comprensibile, qualunque presidente lo proverebbe; ma è grave quando questa paura detta parole e gesti dell’intero establishment di una Superpotenza. Un esempio chiaramente identificabile è quello dell’assassinio a Bengasi di un ambasciatore americano e di cui non è stato chiarito se sia stato un atto di violenza cieca e “spontanea” oppure una congiura premeditata. Se ne discute ancora e non si lascia spazio alla vera riflessione che si porrebbe: se quel gesto di violenza in un’atmosfera di caos fu soprattutto il verdetto sul bilancio dell’intera operazione di rimozione del regime di Gheddafi in Libia, un’idea di alcuni Stati europei ma che raccolse il necessario e fattivo consenso dell’America. Una distrazione peggio che inutile, che – lo dicono un po’ tutti i critici – ha distolto Washington dal suo compito principale, dalla coerenza e dal “pensiero creativo”, che è suo diritto e dovere. Toccherà forse all’uomo che conta le mine restituire una “visione” all’America?