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A Tokyo Abe vince la scommessa



Alberto Pasolini Zanelli
Shinzo Abe ha vinto la sua scommessa. Anzi, per essere più precisi, ha vinto la maggior parte delle scommesse che aveva in mente quando ha chiamato i giapponesi alle urne in un momento in cui non pareva esservi nessuna necessità di elezioni anticipate dopo due anni appena dalla sua vittoria. Le scommesse programmatiche erano varie e hanno avuto successi di dimensioni differenti. Se Abe si fosse atteso un plebiscito di fiducia, sarebbe stato deluso: sono andati a votare appena un giapponese su due, con un’astensione da record storico. Fra quelli che hanno votato, però, egli ha colto la maggioranza assoluta dei seggi, sfiorando addirittura quella “mitica” dei due terzi, che secondo la Costituzione di Tokio permette anche drastiche trasformazioni istituzionali. Così egli potrà continuare a governare e portare avanti i suoi programmi e almeno parte delle sue promesse. Che si concentrano, naturalmente, sull’economia che, dopo avere fatto del Giappone la patria dei miracoli per un quarto di secolo, lo tormenta da quasi altrettanto con una crescita rallentata o a tratti nulla (si è parlato di “dieci anni perduti”) che gli ha fatto perdere la seconda posizione mondiale – e il sorpasso sull’America che pareva imminente – e anche la seconda posizione, nel frattempo occupata stabilmente dalla Cina. Un tempo di “letargo” sorprendente quasi quanto il tempo del boom, mai interamente spiegato dagli economisti nipponici né stranieri, anche perché per quasi tutto questo tempo al governo è rimasto lo stesso partito, liberaldemocratico, che aveva presieduto al miracolo. La sola eccezione fu una legislatura, in cui la protesta aveva dato l’occasione alla principale forza di opposizione, il Partito democratico, a sua volta poi travolto da una serie di infortuni, conclusi con la crisi finanziaria mondiale del 2008, che ha fatto disastri dappertutto e dappertutto lasciato solchi profondi.
Ciò ha dato a Shinzo Abe l’occasione di giocare una sorta di partita lunga: di presentarsi come innovatore e come restauratore a un tempo, lanciando con vigore una proposta fortemente alternativa a quella escogitata contemporaneamente e tuttora praticata in Europa che va genericamente sotto il nome di Austerity. Per fare ripartire il Giappone, Abe pigia sull’acceleratore e non, come la Merkel, sul freno. Ha “pompato” il credito dell’economia per far crescere l’inflazione, indebolire lo yen e aiutare gli esportatori. Con successi alterni ma anche con la conseguenza di un ridotto potere d’acquisto del reddito domestico. Ha investito pesantemente nelle infrastrutture finanziarie e in altri progetti di “stimolo” (simile in questo, ma più energicamente, alle scelte di Obama negli Stati Uniti), ma ha anche aumentato le tasse indirette, ciò che ha avuto effetti recessivi. Si è accostato, inoltre, a una “liberalizzazione” del mercato del lavoro, erodendo così la sicurezza economica dei cittadini. Di qui la diminuzione dei consumi e l’aumento della percentuale di cittadini che vivono sotto la soglia di povertà, fissata in Giappone attorno alla metà del reddito medio. Col risultato, alquanto paradossale, che il Paese, terzo nel mondo per il reddito nazionale, è scivolato contemporaneamente al quarto posto in una graduatoria capovolta, quella dei Paesi con più povertà. Si è così capovolto il sistema che aveva dato per un quarto di secolo ai giapponesi una sicurezza economica senza rivali sul pianeta, attraverso soprattutto l’istituzione, ora in declino, dell’impiego a vita. Una tradizione che lascia poco spazio alle opposizioni. L’unica occasione dal 1955 ad oggi è venuta nel 2009 al Partito democratico, che ha proposto di diminuire gli strumenti pubblici e sostituirli con un sistema di sicurezza sociale di tipo scandinavo che avrebbe dovuto stimolare i consumi privati. Ma quel governo è inciampato in tre grosse complicazioni: uno scontro interno tra il premier e il ministro delle Finanze, lo tsunami nel 2011 che ha sconvolto il sistema dell’energia nucleare e, infine, una polemica con gli Stati Uniti a proposito delle basi militari a Okinawa. Ben presto, dunque, tornò al potere il Partito liberaldemocratico, stavolta sotto la guida di Abe, con i risultati alterni che conosciamo e con la prospettiva di una continuazione di questa linea con i suoi pro e i suoi contro. Agevolata da una caratteristica fondamentale dei giapponesi, che nella loro diversità culturale maturata nei secoli e in gran parte sopravvissuta anche alla trasformazione della società feudale in superpotenza economica: la pazienza quasi infinita dei giapponesi. Che confina con il fatalismo. Che aiuta. Che potrà aiutare ancora Shinzo Abe.