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Il nemico del mio nemico è mio alleato.



Alberto Pasolini Zanelli
Il nemico del mio nemico è mio alleato. Una massima antica più che mai valida. Anche nel Medio Oriente del ventunesimo secolo. Anche quando l’alleato è scomodo: per esempio l’Iran e gli Stati Uniti. Scomodo ma necessario e allora ci si collabora. Di nascosto finché si può, ma viene il momento in cui bisogna non solo farlo ma anche dirlo. Gli americani cominciano ad ammettere, con cautela e discrezione, di essere di fatto alleati con l’Iran nella guerra contro i terroristi islamici dell’Isis. Non hanno firmato alcun trattato, continuano a guardarsi senza sorrisi, ma hanno lo stesso nemico, lo bombardano e lasciano sapere che lo fanno. A quanto pare Obama e i suoi consiglieri, sia alla Casa Bianca sia al Pentagono, si sono convinti che un rafforzamento della brutale “tribù” del Califfato rappresenta un pericolo molto maggiore e che una collaborazione con l’Iran, pure sgradevole, è necessaria. Lo dimostrano i fatti. Il coinvolgimento militare di Teheran in Irak è costantemente aumentato quest’anno. Dall’Iran sono venuti i più concreti soccorsi al tremolante governo di Bagdad nella lotta contro gli estremisti. Lo dicono gli iraniani, lo dicono gli iracheni, lo dicono oggi anche gli americani. “Gli iracheni erano in condizioni disperate e l’unico Paese vicino a venire in loro soccorso concretamente è stato l’Iran. Hanno mandato più di mille “consiglieri militari”, insieme a unità di elite, hanno condotto attacchi aerei, hanno speso più di un miliardo di dollari in forniture belliche”. È anche considerato possibile che senza l’intervento iraniano le truppe targate Isis avrebbero potuto dilagare fino alla capitale irachena. Il massimo pericolo è stato toccato in giugno, da allora sono in corso controffensive organizzate, condotte e finanziate dall’Iran che hanno sostituito in parte gli Stati Uniti, il cui ruolo è in diminuzione e quindi lascia spazio. L’appoggio di Teheran ai gruppi paramilitari si è intensificato da quando è risultata evidente l’aggregazione di gruppi militanti sunniti che rappresentano una minaccia seria al potere sciita subentrato alla dittatura di Saddam Hussein. Di conseguenza e con l’appoggio iraniano, si è sviluppata una mobilitazione di milizie sciite con un forte afflusso di volontari che oggi rappresentano una forza almeno uguale a quella dell’esercito regolare iracheno. Il governo americano non poteva rimanere estraneo a questa dilatazione del conflitto, anche se lo fa nel modo più discreto evitando o nascondendo contatti militari diretti con l’Iran e facendo passare molte comunicazioni attraverso gli iracheni. I motivi non riguardano solo la Mesopotamia, ma anche la vicina Siria, dove è in corso da tre anni una guerra civile che è costata già oltre duecentomila morti e almeno un milione di senzatetto, profughi in Turchia e in Giordania e dove la situazione è ancora più complessa in quanto quasi tutti i vicini (tranne l’Iran e la Russia che vicina non è) appoggiano, finanziano e armano fazioni anti Assad che contemporaneamente però si combattono l’un l’altra e di conseguenza si indeboliscono, mentre continua a crescere il ruolo dell’Isis. L’alternativa si riduce così al duello tra il dittatore che siede a Damasco e i terroristi che lo sfidano. L’America (e quei suoi alleati europei che per primi hanno acceso tre anni fa la miccia della destabilizzazione siriana) ha esitato a lungo. È stata anzi sul punto di intervenire militarmente in prima persona contro il regime; ma allora non c’era in campo l’Isis.
Talune lobby importanti negli Stati Uniti premono per una scelta anti Assad che a questo punto diventerebbe in favore del Califfato; ma Obama sembra avere, con tutte le sue cautele, deciso in senso opposto. Sarebbe infatti a questo punto impensabile che l’America si schierasse contro l’Isis in Irak e indirettamente in favore dell’Isis in Siria. Il potere del Califfato si estende infatti più o meno egualmente in ambedue i Paesi. Se non ci saranno capovolgimenti considerati improbabili, una collaborazione di fatto tra Washington e Teheran rimarrebbe senza alternative. E potrebbe anche estendersi ad altri settori. La diplomazia di Washington ritiene maturi i tempi per far progredire negoziati sui programmi nucleari dell’Iran. Uno sviluppo che susciterebbe forti reazioni in Israele, dove Netanyahu è più che mai convinto che l’Iran sia il pericolo maggiore e di conseguenza il Califfato Isis il male minore. Egli è ascoltato ma è rimasto quasi solo.