Translate

Il burrascoso percorso del negoziato commerciale multilaterale fra i paesi membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio



                                                                                                           
CIRCOLO DI STUDI DIPLOMATICI                                  LETTERA DIPLOMATICA
    PALAZZETTO  VENEZIA                               n. 1104 – Anno XLV
    Via degli Astalli, 3/A – 00186 Roma                                                Roma, 27 novembre 2014
                     Tel. 06.679.10.52          


Da molti anni il Circolo di Studi Diplomatici segue con attenzione e interesse l’attività negoziale che è andata svolgendosi sui temi del multilateralismo commerciale, in una prima, lunga fase, nel contesto dell’Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio – il GATT – e, successivamente, ad opera del WTO – l’Organizzazione Mondiale del Commercio: il traguardo finale di queste complesse e laboriose consultazioni dovrebbe essere, come è noto, la creazione di un’area globale di libero scambio di beni e servizi, all’interno della quale tutti i paesi, indipendentemente dal loro grado di sviluppo, possano con i loro prodotti accedere senza incontrare ostacoli di alcun tipo, ai mercati del resto del mondo.
Il commercio internazionale è ancora oggi il principale motore dell’economia globale, lo strumento più idoneo ad assicurare la sostenibilità della crescita, e a favorire così lo sviluppo, a controbattere gli effetti dei fenomeni di recessione e di stagnazione che da anni caratterizzano la congiuntura economica del pianeta, a ridurre le profonde diseguaglianze che tuttora esistono fra i vari paesi e all’interno delle singole società nazionali.
Importanti risultati nell’abbattimento progressivo degli ostacoli agli scambi sono stati conseguiti nel corso dei numerosi round negoziali che si sono succeduti durante la seconda metà del secolo scorso; pertanto, quando nel dicembre 2001 ebbe inizio, a Doha, quello che doveva essere il coronamento di tutto il lavoro precedentemente svolto, e che, per il compito che gli veniva assegnato - quello di coinvolgere nel processo di sviluppo anche i paesi più poveri ed emarginati - venne denominato il Millennium Round, sembrò che il traguardo finale non fosse ormai troppo lontano.
Purtroppo, come ricorderanno i lettori delle Lettere Diplomatiche pubblicate dal Circolo su questo tema, i lavori del Doha round non si sono svolti come sarebbe stato ragionevole attendersi: la difesa ostinata, da parte di alcuni dei principali protagonisti del commercio mondiale – in primo luogo i paesi industrializzati dell’Occidente – di produzioni nazionali ad alto costo e a basso livello di produttività, e quindi non in grado di reggere la concorrenza delle corrispondenti produzioni degli altri paesi, provocò la paralisi del negoziato: mentre quasi contemporaneamente – era l’anno 2008 – la crisi finanziaria nata dalle irresponsabili speculazioni sui titoli derivati e su altra carta poco affidabile si estese all’economia reale, inducendo molti governi, preoccupati delle conseguenze della crisi sulle attività produttive e sull’occupazione, a ricorrere al peggiore di tutti i rimedi possibili, l’adozione di misure protezionistiche: mettendo in moto reazioni a catena che aggravarono ulteriormente una congiuntura già critica. Anche la crisi del 1929 indusse i governi a chiudere le frontiere alle produzioni provenienti dall’estero, con le conseguenze catastrofiche che ricordiamo. Ma nessuno vuol tener conto degli errori del passato.
Numerosi tentativi di riprendere il negoziato furono compiuti negli anni successivi, ma senza alcun risultato. Fu soltanto nello scorso anno, quando il nuovo Direttore del WTO, l’Ambasciatore brasiliano Roberto Carvalho de Azevedo[1] prese l’iniziativa di invitare i paesi membri ad approvare, a conclusione di una riunione convocata a Bali nel dicembre 2013, il testo di un Accordo, il “Trade Facilitation Agreement”, con il quale questi assumevano l’impegno di adottare una serie di provvedimenti volti a rendere più rapide le operazioni doganali relative alle merci in importazione dall’estero. Il processo negoziale si rimise in moto.
Lo sdoganamento delle merci al confine è semplicemente un atto burocratico che si compie a conclusione del percorso di un contratto di import-export fra due o più paesi, ma che è suscettibile di tradursi, se non gestito correttamente dal paese importatore, in una delle tante forme di ostacoli non tariffari agli scambi, comportamenti illeciti purtroppo tuttora diffusi.
Il Trade Facilitation Agreement è apparso, quindi, come una chiara manifestazione, da parte dei paesi partecipanti all’Organizzazione Mondiale del Commercio, della volontà di risvegliare dal lungo letargo il negoziato del Doha round e fu salutato con soddisfazione da quella parte del mondo imprenditoriale interessata alla ripresa del cammino verso il multilateralismo commerciale, visto come la principale strada da battere per il definitivo superamento della crisi economica tuttora presente nella maggior parte delle regioni del mondo.
Ma la soddisfazione, come abbiamo visto[2] fu di breve durata: perché il governo indiano, la cui delegazione aveva dato il proprio assenso all’accordo, rifiutò successivamente di procedere alla necessaria conferma, in segno di protesta per non aver ottenuto l’immediata convocazione di una conferenza – prevista dal WTO per il 2017 – nel cui contesto sarà in agenda il tema dei sussidî che l’Amministrazione di New Delhi concede a larghe fasce di consumatori di derrate agricole, in violazione delle norme in vigore nel WTO.
Si apriva così una nuova e, c’era ragione di temere, irreversibile crisi che avrebbe segnato la fine di tutte le speranze di riprendere il percorso negoziale.
***
Il comportamento del governo indiano fu oggetto di aspre critiche da parte di numerose fonti internazionali – non è in effetti frequente il caso di un governo che da solo impedisca l’entrata in vigore di un accordo approvato da altri 158 paesi partecipanti al negoziato – pur dovendo essere consapevole delle gravi conseguenze del proprio gesto.
L’esigenza di sbloccare la situazione nel più breve tempo possibile ha indotto il Presidente Obama ad intervenire personalmente con il Primo Ministro indiano, Modi, riuscendo dopo tre mesi di consultazioni a convincerlo ad accettare il compromesso che era già stato proposto alla delegazione di New Delhi a conclusione della Conferenza di Bali e a dare quindi il sospirato consenso al Trade Facilitation Agreement.
A questo punto, una volta superato l’impedimento frapposto dall’India, si doveva ritenere che l’Accordo potesse entrare nella fase finale dell’iter negoziale, con l’invito da parte del WTO agli Stati firmatari a procedere all’atto delle ratifiche.
Ma nei negoziati internazionali, in particolare in quelli che coinvolgono un elevato numero di partecipanti, gli imprevisti non mancano mai: come abbiamo visto nel corso degli anni, il cammino del multilateralismo commerciale è costellato di ostacoli, e ne incontra ad ogni passo, e dove non dovrebbero esisterne c’è sempre qualcuno o qualcosa in grado di crearli, e questo è nuovamente accaduto anche nel caso dell’accordo di cui ci stiamo occupando.
Durante i tre mesi di stasi in attesa del ripensamento indiano, alcuni dei paesi membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio hanno espresso dubbi sull’opportunità di mantenere in vigore il sistema – sempre applicato finora nell’approvazione delle decisioni – del voto all’unanimità: perché, si osserva, in questo modo molti partecipanti finiscono per lasciarsi coinvolgere nel dare il loro assenso anche a provvedimenti non del tutto condivisibili in quanto poco compatibili con gli interessi nazionali: sarebbe preferibile, ritengono, che le intese fossero raggiunte, ed esplicassero i loro effetti, soltanto fra i paesi che pienamente le condividono, mentre gli altri potrebbero lavorare alla ricerca di soluzioni a loro più congeniali, a condizione, ovviamente che queste non siano lesive degli interessi degli altri paesi membri.
Queste considerazioni hanno incontrato il favore di un numero abbastanza rilevante di membri dell’Organizzazione e lo stesso Direttore Azevedo, secondo quanto si è appreso, le avrebbe ritenute meritevoli di attenzione, nella eventuale prospettiva di una modifica della procedura di voto fino ad oggi applicata.
E’ presumibile quindi che all’interno dell’Organizzazione si apra ora un dibattito in merito all’opportunità o meno di apportare modifiche alle procedure in vigore, e qualora venissero approvate, assisteremmo ad un’ulteriore frammentazione delle iniziative negoziali da tempo in atto e consistenti, come è noto, nella formazione di unioni commerciali a livello regionale; a queste potrebbero aggiungersi altre forme di unioni commerciali basate su convergenze tematiche fra Stati di aree regionali diverse, d’accordo fra loro su progetti e programmi specifici.
Come si è osservato in precedenti Lettere, questi comportamenti e queste iniziative non sono arrestabili, possono anche essere considerate utili in quanto eliminano ostacoli agli scambi, sia pure in aree geograficamente limitate: la controindicazione è rappresentata dall’emarginazione da queste forme di cooperazione dei paesi economicamente più deboli.
Il problema che in questa prospettiva si pone è quello di ricondurre nell’alveo del sistema globale le varie iniziative plurilaterali che vanno via via formandosi: nel senso di indurle a non richiudersi ciascuna nel proprio interno, ma ad aprirsi a negoziati con altre aree analoghe, in modo da mantenere sempre aperta la strada che dovrebbe condurre alla creazione dell’auspicata area globale di libero scambio.
La finalità è quella di avviare un percorso diverso da quello a lungo condotto nel contesto del negoziato multilaterale, ma con obiettivi analoghi, quello dei negoziati fra raggruppamenti di paesi. In questo schema è evidentemente essenziale e determinante il ruolo che l’Organizzazione Mondiale del Commercio deve essere chiamata a svolgere.
***
La crisi del negoziato multilaterale nasce anche dal ritardo nel raggiungimento degli obiettivi di partenza, fra cui, importante, il contributo alla riduzione delle diseguaglianze nei livelli di sviluppo e di qualità della vita fra i membri della comunità internazionale: diseguaglianze che rendono particolarmente difficile a numerosi paesi l’accettazione di comportamenti ritenuti lesivi degli interessi nazionali.
Da qui la necessità di procedere in maniera pragmatica, affrontando di volta in volta un numero circoscritto di temi, secondo la strada indicata dal WTO con il Trade Facilitation Agreement: scegliendo traguardi che possano essere condivisi anche in un contesto multilaterale.
Perché nonostante tutte le difficoltà, il multilateralismo nel negoziato commerciale resta un metodo di lavoro insostituibile: è dal negoziato multilaterale che ha avuto inizio il percorso verso la globalizzazione, e questo percorso non può arrestarsi con il rischio di rinunciare a quella che è stata la grande conquista di questo secolo.
Si può aggiungere che le difficoltà a trovare convergenze sui temi in discussione non sono da attribuire, nel caso del negoziato multilaterale, all’elevato numero dei partecipanti e agli inevitabili contrasti fra portatori di interessi ed esigenze diverse, perché analoghe difficoltà si presentano anche in negoziati commerciali fra un numero limitato di paesi, anche se di comparabili livelli di sviluppo economico.
Sono in particolare in corso da tempo due negoziati commerciali fra i maggiori protagonisti dell’economia mondiale: fra Stati Uniti ed Europa, il primo – Transatlantic Trade and Investment Partenership, il secondo fra paesi dell’area del Pacifico – Trans Pacific Partnership.
Nel primo caso le trattative fra le parti procedono tra notevoli difficoltà e non si vede la possibilità di una conclusione favorevole in un ragionevole arco di tempo. E per quanto riguarda il negoziato fra i partecipanti al Trans Pacific Partnership, ostacoli di varia natura continuano a presentarsi con frequenza.
E per entrambi gli accordi, non si può escludere che altre difficoltà vengano sollevate dagli organi istituzionali in sede di ratifica. E per quanto riguarda gli Stati Uniti, un motivo di incertezza risiede nel rifiuto del Congresso di concedere al Presidente Obama il “fast track”.
Per quanto riguarda invece l’Accordo di cui ci stiamo occupando, i timori, giustificati dalle precedenti esperienze, che le critiche alla procedura in atto potessero arrestarne il percorso sono apparsi infondati: il senso di responsabilità dei governi ha finito per prevalere e l’Accordo di Bali è stato nei giorni scorsi confermato aprendo la strada alla procedura delle ratifiche da parte dei paesi firmatari.
Una buona notizia per quanti credono nel ruolo determinante per l’economia mondiale dello strumento rappresentato dal negoziato multilaterale.

                                   Giuseppe Jacoangeli