Alberto Pasolini Zanelli
È stata proprio una
vacanza caraibica. Piena di successi e di sollievo. “Profugo” temporaneo dalle
angosce mediorientali, dagli incubi iranici, dalle imboscate domestiche, sullo sfondo
delle atrocità dei Califfi e delle complicazioni surreali di mezza dozzina di
guerre “locali” manovrate dall’estero. È dovuto volare a Panama per incontrare una
platea plaudente al suo messaggio di celebrazione della fine di una guerra
fredda con una sfilza di strette di mano, introdotta da quella tra il
Segretario di Stato John Kerry e il suo collega cubano e conclusa al più alto
livello con un Castro, fratello di Fidel e detentore del potere. Residuo di una
inimicizia storica durata più di mezzo secolo priva di trattative e ricca di episodi
di natura bellica e non soltanto di guerra fredda. Un incontro avvenuto a
Panama, luogo dell’ultimo intervento militare diretto degli Stati Uniti in un
Paese dell’America Latina. Non è solo una coincidenza, è stata l’occasione per
Obama di realizzare in concreto uno dei cardini delle sue convinzioni politiche:
la liberazione dalle spine del passato. Che non poteva essere unilaterale.
L’uomo della Casa Bianca ha messo nel cassetto concetti come l’“asse del male”,
centrale nella visione del suo predecessore; il fratello di Fidel (che ne ha
ereditato il potere) butta nel cestino il lessico del “Grande Satana
imperialista yankee”. È ciò che Obama si è sempre ripromesso, convinto che un
accordo mediocre è comunque meglio di una guerra, nel Medio Oriente come nei
Caraibi e che il dialogo non può essere ristretto agli amici, perché è con i
nemici che prima di tutto si deve trattare. Lo dice da quando siede alla Casa
Bianca, a Est non ha trovato risposte positive, l’America Latina gli è più
congeniale.
Con qualche
eccezione, naturalmente. Alla distensione con L’Avana si accompagna una crisi
nei rapporti con Caracas. Una coincidenza paradossale, perché il Venezuela è
stato per anni il discepolo più volonteroso del castrismo, Chavez ha
contribuito più di chiunque altro a tenere in piedi, rifornendolo fra l’altro
di petrolio gratuito. Ora Chavez è morto, la pacchia dovrebbe essere finita per
Castro junior, ma a spese di Maduro, erede di Chavez e principale bersaglio dei
timori e delle iniziative dei “falchi” di Washington. In forma diretta ma
anche, fino a ieri, attraverso lo schermo di Cuba. Messo al bando da decenni
dai vertici panamericani, il regime dell’Avana ha recuperato terreno
convincendo gli altri governi “latini” a creare una rete di organismi
diplomatici ed economici in cui gli Stati Uniti sono in minoranza, se non
addirittura assenti. Un anacronismo che ha retto fino a ieri e che è defunto
simbolicamente con una stretta di mano, ma più concretamente con la decisione
di Washington, annunciata poche ore fa da Obama, di togliere Cuba dall’elenco
dei Paesi “fomentatori del terrorismo internazionale”, cioè dall’angolo in cui
è tuttora relegato l’Iran. Un’altra “spina” importante che viene “desplomada”.
Forse il gesto più significativo, incartato in parole esplicite da ambo le
parti. “Basta con l’embargo, guardiamo al futuro”e ha detto Obama ha chiesto al
Congresso che si metta al lavoro per porre fine all’embargo che è in vigore da
decenni. “La guerra fredda è finita da tempo. Non sono interessato a battaglie
iniziate prima che io nascessi”. La replica di Castro è stata più personale:
“Obama è un uomo onesto. Non è responsabile per i dieci presidenti che lo hanno
preceduto”. Lui sa che Cuba non rappresenta una minaccia per gli Stati Uniti. E
neppure il Venezuela”.
Una “distensione”
in più, che però è più difficile da concretizzare in questo momento. L’ostilità
del Congresso e dell’intero establishment americano per il regime di Caracas
sono profonde e il momento di crisi economica venezuelana le incoraggia. Obama
dovrà aspettare, ma le sue giornate felici nei Caraibi hanno avuto un sigillo
solenne. Un messaggio di incoraggiamento
da parte del Papa latinoamericano, in concomitanza con l’indizione di un
Giubileo. Letto in spagnolo alla presenza dei leader di trentatré nazioni, il documento
contiene l’auspicio che “il dialogo sincero porti a una mutua collaborazione” e
affronta temi come “l’iniquità e l’ingiusta distribuzione delle risorse” che è
“fonte di conflitto e di violenza tra i popoli”. Una benedizione della
globalizzazione, ma nell’ambito della solidarietà e della fraternità e non della
discriminazione e dell’indifferenza”. Concetti universali ma che sembrano
ritagliati apposta per benedire quella stretta di mano e l’insieme delle
iniziative di un presidente americano tanto discusso.