Alberto Pasolini Zanelli
L’annuncio è venuto
da una gentile voce italiana, subito rafforzata da una iraniana e poco più
tardi da quella più autorevole, di John Kerry, il tessitore infaticabile
dell’accordo raggiunto a Losanna dopo una maratona di trattative. È scarno ma
tutt’altro che ambiguo: l’accordo c’è, i suoi cardini sono chiari, restano da
organizzare le attuazioni tecniche. Ma nel complesso si può parlare di un
successo importante quasi quanto faticato, in ritardo di due giorni: doveva
essere concluso entro marzo, ha schivato la “trappola” di un annuncio che
assomigliasse a un pesce d’aprile, ha aperto la strada alla tappa successiva di
negoziati da concludere entro il 30 giugno. Gestazione lunga ma carnet di
appuntamenti folto su basi solide. Come confermano anche parecchie cifre. I due
terzi dell’attuale capacità di “arricchimento” dell’uranio saranno sospesi. La
maggior parte delle riserve di uranio arricchito sarà “degradata” a un livello
di “ricchezza” inferiore all’attuale. Una parte sarà trasferita all’estero
(probabilmente in Russia) nelle 19mila centrifughe attualmente in suo possesso
l’Iran continuerà a disporre di poco più di 6mila, sotto un “monitoraggio” di
dieci anni, al termine del quale la supervisione continuerà in forma più
“leggera”, in rapporto a un alleggerimento delle attività di ricerca. Non
saranno attivate altre strutture di arricchimento dell’uranio oltre a quella di
Natanz. Ci sarà una “joint venture internazionale” che si occuperà delle
strutture dei reattori di “acqua pesante”. Uno di questi, quello sotterraneo di
Fordow, sarà convertito in un sito per la ricerca, senza materiale fissile. In
cambio ci sarà un aiuto internazionale all’Iran per la progettazione e
costruzione ad Arak di un nuovo reattore ad “acqua pesante”. Il trattato
resterà in vigore per venticinque anni. In cambio di queste concessioni, l’Iran
ottiene che venga gradualmente alleggerito il peso delle sanzioni internazionali,
soprattutto americane. Era dunque giustificato l’annuncio iniziale di Federica
Mogherini: “Ci sono buone notizie”, ben presto confermato dalla viva voce di
Kerry: “Questo è un grande giorno”.
È finita, in
sostanza, in modo migliore di quanto i più si fossero convinti nel corso dei
defatiganti negoziati, a Losanna ma anche e soprattutto prima di questo
appuntamento. Molti si erano rassegnati a un nulla di fatto, alcuni lo
auspicavano, coperti da cautele diplomatiche ma in qualche caso anche pubbliche.
Non conosciamo i dettagli del dibattito interno al potere di Teheran, tra i
fautori delle trattative e i “falchi” presumibilmente più vicini alle autorità
religiose di quella teocrazia. Si sapeva che tra le sei “potenze” la Cina sott’acqua e la Russia apertamente si
battevano per un accordo e per un sostanziale appoggio all’Iran. Fra gli
europei si era distinta per la sua intransigenza la Francia, in contrasto con
le cautele anglotedesche. Ma il vero dibattito è avvenuto all’interno degli
Stati Uniti, con un evidente contrasto fra i progetti di Obama, la sua “ideologia”
e le pratiche realizzazioni finora, contro resistenze senza precedenti da parte
dell’opposizione repubblicana, giunta a inviare un messaggio ai detentori del
potere a Teheran invitandoli a bloccare l’accordo anche attraverso la minaccia
di “cancellarlo” con un voto del Congresso in sede di approvazione. Dietro i
repubblicani c’era naturalmente il primo ministro “falco” di Israele, Benjamin
Netanyahu, che era stato invitato, con un gesto senza precedenti, a esporre i
motivi del suo “no” e a esprimere quello che in sostanza era un suo “veto”. Il
successo del negoziato a Losanna non garantisce una “riconciliazione” tra
queste due linee, anche se Obama potrà sentirsi abbastanza confortato dagli
orientamenti dell’opinione pubblica Usa: quasi due terzi degli americani e più
di metà degli elettori repubblicani, sono favorevoli al negoziato e ai suoi
obiettivi anche se non si fanno troppe illusioni sulla sua durata e solidità. Nel
complesso, però, la linea di Obama (o forse più esattamente di Kerry, che
comunque ha goduto dell’appoggio della Casa Bianca), anche perché questa linea
tiene conto del rischio globale che un ulteriore inasprimento avrebbe
comportato. Non tanto nei rapporti tra l’America e l’Iran, quanto di fronte a
una “costellazione” che si andava delineando in cui per far fronte a Teheran e
ai suoi sostenitori sciiti si andava già delineando da parte dell’Occidente un
atteggiamento più morbido nei confronti del jihadismo sunnita in tutte le sue
forme, compresa quella incarnata nell’Isis, nel Califfato, nelle sue milizie e
nelle sue atrocità. Se non altro, la diplomazia al lavoro a Losanna avrà
gettato qualche seme di un ritorno alla “ragione” in questo campo.
Pasolini.zanelli@gmai.com