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Fatta la pace, adesso la “guerra”



Alberto Pasolini Zanelli
Fatta la pace, adesso la “guerra”. Il contrario della regola scoperta e dettata in un libro che sta per compiere duecento anni e da allora è la massima autorità in proposito: “Vom Kriege”, “Della Guerra”. Un concentrato di saggezza, esperienza e prussianesimo per la penna di Carl von Clausewitz. La sua tesi si riassumeva in una frase: “La guerra è la continuazione della diplomazia con altri mezzi”. Due secoli dopo tante cose sono cambiate. Avremmo dovuto assistere a una crescente tensione diplomatica, che poteva fallire lasciando il posto a un conflitto armato. È accaduto l’opposto. Le trattative fra l’Iran e gli Stati Uniti sono partite da una specie di ultimatum (che è poi una guerra senza gli spari) e si è concluso con un trattato che alcuni considerano non la conclusione di uno scontro bellico, bensì la sua preparazione. La sua continuazione con altri mezzi. I Paesi protagonisti, più alcuni altri. Come la Russia, che ha fatto da mediatore e altri europei che sono stati soprattutto spettatori. Si è partiti da posizioni ultimative e ci si è lasciati con un rinvio camuffato da verdetto. Pace e guerra sono stati rinviati a giugno. Alla fine di quel mese dovrebbe uscire la versione completa e definitiva dell’accordo siglato a Losanna da sette governi e introdotto dalla voce gentile e ammaliante di Federica Mogherini.
In realtà ce ne sono due versioni: quella che preferisce leggere l’Iran e quella che diversamente interpreta l’America. Quale versione prevarrà non lo deciderà il vertice bis: sarà deciso sul “campo di battaglia”. Non come lo definiva Clausewitz, ma come accade nel ventunesimo secolo. La parola non sarà “al cannone” ma “al rombo dei dibattiti”. In varie sedi ma soprattutto, decisivamente, nel Congresso di Washington. Fra quei banchi e soprattutto nelle sue stanze private, quelle che in tempi atabagici si chiamavano “stanze piene di fumo”. Il negoziatore americano John Kerry ha finito col dominare il campo a Losanna, ma il Congresso non sarà protagonista: toccherà a Barack Obama, autorità suprema ma anche molto più fragile e che rischia di trovarsi isolato in quella sede almeno quanto lo è stato il ministro degli Esteri iraniano ai tavoli delle trattative in Svizzera. La controparte si propone infatti puramente e semplicemente di cancellare il trattato, i suoi risultati, le sue promesse. Non si tratterà di un dibattito su una ratifica, bensì di un processo dal potere esecutivo. Obama vi comparirà come imputato, condannato in partenza o quasi da un pubblico ministero che si chiama Benjamin Netanyahu ma soprattutto da una giuria che si identifica con la maggioranza parlamentare repubblicana. Si contano sulle dita, infatti, i deputati e i senatori del partito di opposizione disposti a rimettersi patriotticamente alle scelte di Obama. Le loro intenzioni non potrebbero essere più chiare, anche alle platee più lontane. Hanno invitato a parlare davanti alle Camere riunite – senza informare la Casa Bianca – lo statista straniero dalla più ferma, coerente e globale opposizione a qualunque compromesso con l’Iran e per di più stimolato in quel momento da una critica scadenza elettorale in Israele. E subito dopo metà dei senatori Usa hanno, scavalcando di nuovo la presidenza, mandato un messaggio alla controparte iraniana, “consigliandole” di ignorare e dunque di annullare il risultato del “vertice” di Losanna e qualunque proposta gli venga da Obama.
Sul piano formale il Congresso, controllato dai repubblicani, sostiene di avere il diritto di essere consultato e richiesto di una approvazione del trattato. Se messo in minoranza, è vero, il presidente potrà apporre il proprio veto. Ma allora il Congresso potrebbe mettere un veto al veto e arrogarsi così l’ultima parola. Basterebbe che ai repubblicani si unisse qualche democratico particolarmente sensibile alle inquietudini di Gerusalemme. Questa è la “guerra” che si avvicina. Nel frattempo la guerra va avanti in tutto il resto del Medio Oriente, moltiplicandosi quasi ogni giorno. Ormai l’Iran e Israele sono i soli Paesi non impegnati in guerre guerreggiate in quella parte del mondo. Non “con altri mezzi”, ma con i più vecchi del pianeta. Capovolgendo anche la saggezza di Clausewitz.