Alberto Pasolini Zanelli
I compleanni della politica e
della Storia contengono a volte dei paradossi. L’ultimo è quello del Vietnam e
degli Stati Uniti. Il primo celebra in queste ore il quarantesimo anniversario della
sconfitta inflitta alla Superpotenza. Pochi avevano previsto che una nazione
impegnata a rinascere potesse piegare il Numero Uno. Qualcuno lo ritiene
impensabile. Non perché abbia la memoria corta, ma perché il presente incalza.
Ho Chi Minh City percorsa dalle parate e immersa nelle bandiere rosse può osare
meglio di Washington ricordare la fine a sorpresa di un conflitto oggi fra due
alleati di oggi. Forze americane e vietnamite conducono da tempo manovre
congiunte, soprattutto navali, proprio nei luoghi dove i primi soldati
statunitensi sbarcarono a inaugurare quella guerra, dal porto di Cam Ranh, la
principale base costruita dagli americani tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Alti
ufficiali della Marina di Hanoi hanno “abbordato” di recente, da visitatori
solenni, la “George Washington”, ammiraglia della Settima Flotta Usa. A Da Nang
ha attraccato più volte la “Uss John McCain”, a lui intestata a ricordo di una sofferta
prigionia di anni in un campo di concentramento vietnamita. Un altro reduce,
John Kerry attuale ministro degli Esteri, riportò invece a casa dal Vietnam
quattro medaglie al valore (che poi, da reduce e da civile, le scaraventò per
terra davanti al Campidoglio di Washington nel corso di una manifestazione di
protesta contro la continuazione di quel conflitto, scandendo slogan come “Ho
Ho Ho Chi Minh” e “Fate l’amore, non fate la guerra”). Destino volle che, in un
modo o nell’altro, Hanoi e Saigon (ribattezzata quarant’anni fa con il nome di
Ho Chi Minh), sono state culla della carriera di molti esponenti Usa, militari
e soprattutto politici. I primi soldati americani furono spediti in Vietnam dal
presidente Kennedy. L’impegno toccò il suo culmine sotto il suo successore
Lyndon Johnson. A tirarli fuori fu Richard Nixon, attraverso l’opera di Henry
Kissinger (che ci guadagnò un improprio premio Nobel per la pace). A firmare
quella che era in sostanza una capitolazione, fu il suo successore Jerry Ford. Saigon
conobbe giornate grondante sangue, il popolo americano si guardò sugli schermi
televisivi le immagini atroci di una rotta, con migliaia e migliaia di civili
sudvietnamiti che si affollavano ai piedi degli elicotteri pieni di “passeggeri”
americani in fuga, imploravano aiuto; ma c’rea spazio e tempo solo per pochi. Perfino
la Settima Flotta se ne dovette andare dalle acque vietnamite per “ordine” dei
vincitori.
Oggi i vietnamiti hanno capito
che la Cina è il nemico e l’America può diventate il protettore. La Storia è
piena di sorprese, ma questa non dovrebbe essere tale dal momento che Ho Chi
Minh, l’unico statista ad aver sconfitto gli Usa, è sempre stato “filoamericano.
Fu però un amore non corrisposto. Nacque alla fine della Prima guerra mondiale,
quando lo “zio Ho” si trovò a “coabitare” nei mesi della conferenza di pace a
Versailles come cameriere in un albergo di Parigi, capitale della potenza
coloniale nel Sud-Est Asiatico. E fiorì durante la Seconda guerra mondiale,
combattuta dagli americani anche in difesa del Vietnam invaso dai giapponesi
(la Cina dell’epoca) e ad armare i guerriglieri che combatterono per
l’indipendenza e la loro terra. Ho Chi Minh amava anche l’“ideologia americana”,
nemica del colonialismo attraverso il richiamo all’autodeterminazione dei
popoli, lanciata da Wilson a quella Conferenza di Parigi.
Vietnam e America, insomma, hanno
voltato pagina. Appare ormai lontana quella lunghissima guerra che ha avuto
conseguenze così importanti sulla politica estera di una mezza dozzina di
inquilini della Casa Bianca. Le polemiche sono quasi svanite. Un vietnamita su
due ha oggi meno di 30 anni. Fra i quattro e i cinquecentomila civili americani
si recano ogni anno in Vietnam da turisti. Migliaia di studenti partono da
Hanoi o dalla vecchia Saigon a studiare nelle università americane. Già un paio
di anni fa un ministro americano dichiarò che “quando giro lo sguardo fra i
Paesi nostri amici dell’Asia Sud Orientale devo constatare ogni volta che le
prospettive più promettenti le abbiamo proprio in Vietnam”. Hillary Clinton,
destinata alla successione di Obama, è ancora più calorosa: “Abbiamo imparato,
noi e vietnamiti, a guardarci l’un l’altro non come vecchi nemici ma come
partner, colleghi e amici”. Suona come una primizia storica, ma ha radici
antiche quasi da quando il Vietnam gravita, da secoli, nell’orbita dell’Impero
di Mezzo, come partner minore che si sforza di sfuggire a un ruolo di
satellite. E Pechino rivendica una sovranità su gran parte del South China Sea,
il Mar della Cina meridionale, che risale al 1940 e attribuisce alla sovranità
di Pechino, contestato però da Taiwan, dalle Filippine, dalla Malaysia, dal Brunei
ma soprattutto dal Vietnam, che denuncia violazioni nel proprio spazio
marittimo.
L’allarme è ingigantito dal ritmo
accelerato di modernizzazione e ampliamento della flotta cinese. La sua prima
portaerei ha un percorso singolare: faceva parte della flotta sovietica, fu
ereditata dall’Ucraina, che la vendette a una società di Hong Kong che voleva
farne un casinò a Macao e che invece è stata ricostruita per un ruolo bellico.
L’esperienza vietnamita ha lasciato forme profonde nella storia e nel costume
dell’America e del mondo. Risuonano nella memoria di tutti slogan planetari come
“due, tre, molti Vietnam”, oppure “mai più un altro Vietnam” e anche,
nell’atmosfera degli anni Sessanta e Settanta, “fate l’amore, non la guerra”.
Almeno questa guerra.