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"La sola colpa di essere negro"

 Usa, spara alle spalle a un afroamericano Agente arrestato /   Il video  che lo inchioda  Il sindaco annuncia: "E' stato licenziato"

(Vittorio Zucconi su Repubblica)

WASHINGTON - NELLA terra madre delle piantagioni e degli schiavi, in quella Carolina del Sud che accese la miccia della guerra civile americana, un altro figlio di africani che raccoglievano proprio lì il cotone dei padroni, cade, ucciso da una guardia bianca per nessun'altra colpa che l'essere nero.
North Charleston, il grande e ruvido sobborgo industriale della raffinata ed elegante Charleston dove Walter Scott è morto a 50 anni per un fanale posteriore dei freni bruciato, sta oggi, come cento cinquant'anni or sono, alla confluenza non soltanto geografica, ma civile, di due fiumi, lo Ashley e il Cooper. Si riuniscono qui nella bellissima baia di Charleston, portando l'acqua melmosa e rossiccia di una storia che non vuole finire e che nessuna celebrazione, nessuna presidenza, nessuna retorica riesce a risanare: la guerra in bianco e nero.

Il prato di erba stenta dove Scott è stato abbattuto con otto colpi sparati alla schiena dall'agente di prima classe Michael Thomas Slager mentre tentava di fuggire nel timore di essere arrestato e di dover pagare gli alimenti arretrati alle madri dei suoi quattro figli, è la terra che un tempo faceva parte della magnifica "Magnolia Plantation", una delle più grande e belle del Sud schiavista, ancora visitabile nella "Mansion" rinata. È un "set" nel quale si sarebbe riconosciuto Django, tra file infinite di cespuli di cotone e che oggi torna a essere la scena di un omicidio di polizia, segnato dalla sola battuta registrata nel video di un passante: "Oh, shit". Merda.

Se almeno per questa esecuzione, perché di esecuzione senza verdetto di legge si tratta, non ci sono i dubbi, le solite versioni opposte, il "lui dice e lui nega" che vedemmo a Ferguson, o nelle altre dozzine di omicidi di polizia registrati in questi mesi, proprio la nitidezza inconfutabile della sequenza illumina la verità lancinante di questi fatti di cronaca: la presunzione di colpevolezza che circonda ogni "uomo nero" e il diritto ad abbatterlo se osa opporsi, o divincolarsi, o ribellarsi agli ordini della guardia bianca. I neri ancora visti oggi come clandestini, come immigrati non integrati Quei quattro minuti e nove secondi, casualmente ripresi da un testimone come già il pestaggio di Rodney King a Los Angeles che lanciò un'altra rivolta dei ghetti o come il soffocamento di Eric Garner a Staten Island, sono un minidocumentario perfetto per gli archivi di una guerra che proprio qui alla confluenza dei due fiumi vide sparare il primo colpo, con il bombardamento del forte Sumter da parte dei ribelli secessionisti contro la guarnigione fedele agli Stati Uniti.

La sceneggiatura è esemplare: la corsa disperata di Scott, fermato da una pattuglia per un faro posteriore bruciato nella sua vecchia Mercedes, auto comunque di lusso che rende istantaneamente sospetto il guidatore nero; la calma professionale con la quale l'agente Slager impugna e punta a braccio teso la sua leggera e micidiale Glock calibro 45 svuotando il caricatore sull'uomo che scappa centrandolo con sei colpi su otto sparati, un eccellente "score"; le manette grottescamente chiuse ai polsi di quello che ormai è un cadavere, raggiunto da quattro colpi al torace, il bersaglio indicato ai poliziotti durante l'addestramento. Tutto forma uno spezzone esemplare di un film che abbiamo già visto e che certamente rivedremo ancora, oggi che ovunque si può nascondere un cameraman dilettante con un telefonino.

L'agente è in stato di arresto, per omicidio ingiustificato, poiché nell'assassinio di Walter Scott, pregiudicato per vari reati nessuno dei quali neppure lontanamente giustificherebbe la pena capitale, non ci sono ombre, anche se all'inevitabile processo, i difensori riusciranno a ridurre la pena citando la colluttazione con la vittima per afferrare il "taser", la pistola a scarica elettrica, che non aveva fermato il fuggitivo.

I giustificazionisti tenteranno di ripetere che la presunzione di colpevolezza, il classico "io non so che cosa tu abbia fatto di male, ma qualche cosa hai fatto" e la resistenza all'arresto sono scolpiti nelle cifre dei reati e della incarcerazione che vedono una enorme maggioranza di afroamericani condannati e imprigionati. Un bambino con la pelle scura e sangue africano nato oggi ha una probabilità di tre di finire in galera nella propria vita, contro una su 10 di un figlio di latino americano e una su 17 di un bambino bianco. Dunque il sospetto e la paura, perché anche la guardia ha paura e sa quale immondo e immenso arsenale si possa nascondere sotto quelle felpe e camicie, non sono ingiustificati.

Quello che le statistiche trascurano sono le circostanze per le quali tanti più uomini, e donne, di colore finiscono in carcere. La facilità di sentenze per spaccio di stupefacenti. La povertà della difesa degli imputati, il più delle volte affidata ad avvocati d'ufficio oberati di casi e rimborsati dal tribunale con misere paghe orarie da friggitore di polpette. La facilità con la quale si patteggiano reati e pene minori con complici e testimoni pronti a dichiarare quello che l'accusa vuol fare dire loro, per cavarsi dai guai.

L'esecuzione dell'"uomo che corre" sulla terra che gli resta straniera, che fu dei "massa" piantatori, è dunque alla confluenza di fiumi che vengono da molto lontano e che continuano a trascinare nella piena dell'odio, vittime e carnefici, colpevoli e innocenti insieme. I sempre nuovi caduti di una guerra civile alla quale non bastarono i 600mila morti contati nel 1865 e ancora pretende sacrifici umani, oh shit , merda.