Alberto
Pasolini Zanelli
Ci vuole molta
cautela a non entusiasmarsi, o almeno a sentirsi sollevati, dall’annuncio che
un armistizio è imminente in Siria, o almeno in quello che è il “fronte”
principale, oggi, della guerra civile nel Paese martire del Medio Oriente. Fra
una settimana o forse anche prima dovrebbero tacere le armi tutto attorno ad
Aleppo e delle strade che vi conducono. L’hanno annunciato, contemporaneamente
pur se non congiuntamente, i ministri degli Esteri americano e russo. Era tanto
che i suoi abitanti, i loro connazionali, il mondo aspettavano questo annuncio,
pur non attendendosene frutti copiosi e tantomeno sicuri. L’identità dei
contraenti dovrebbe da sola essere una lezione di realismo: America e Russia,
come se la Guerra Fredda lo richiedesse ancora, come se i due Grandi
continuassero a contendersi e a gestire i destini delle terre e delle genti,
come se il miracolo di un quarto di secolo fa non fosse in realtà accaduto.
In realtà in
alcune parti del mondo, come in Medio Oriente, quella pace-miracolo deve ancora
arrivare. E gli ultimi cinque anni di Siria paiono avere cancellato gli effetti
benefici del ventennio precedente nel mondo. Il Segretario di Stato Kerry e il
suo collega moscovita Lavrov si sono imposti quando ormai ben pochi ci
credevano, a cominciare dai protagonisti sul terreno. I combattimenti si inasprivano
di giorno in giorno, si delineava un esito, un successo: quello del governo di
Damasco, dittatoriale ma legittimo, e della potenza protettrice, l’aviazione
russa e le sue bombe. Anche gli abitanti di quella che era la città più
popolosa della Siria avevano capito che l’alternativa era fra la restaurazione del
regime di Assad e la fuga sulle strade che si andavano aprendo in conseguenza
del crollo dei “ribelli”.
Ma scappare dove?
La geografia, la logica, la storia indicavano una sola meta possibile: la
Turchia, molto vicina geograficamente e politicamente ai contestatori del
regime. Ma la Turchia aveva appena detto “no”: cessata l’accoglienza, chiuse le
porte, per “motivi umanitari”. Una decisione paradossale, giustificata con la
meno umanitaria delle ragioni: da ora in poi ogni profugo che entra crea un
vuoto nella terra contesa e dunque facilita il compito dell’“invasore”. Neanche
ai tempi della Guerra Fredda si avanzavano argomenti del genere, soprattutto da
parte di un Paese “neutrale”.
In realtà la
Turchia non lo era mai stata. Come praticamente nessuno, del resto, in questi
anni di sangue e di confusione per il Medio Oriente, annunciati con le trombe
festose della Primavera Araba. Essa seminò speranze un po’ dappertutto, quasi
ovunque deluse. Enumerarle richiederebbe troppo spazio: basta pensare a come è
finita la “liberalizzazione” dell’Egitto, in un esperimento di potere islamista
chiuso da un ritorno al regime militare. O la “liberazione” della Libia, cui
l’abbattimento e l’assassinio di Gheddafi avrebbero dovuto portare uno Stato
democratico e che invece ha avuto in regalo la morte dello Stato e la fioritura
dell’Isis. La Siria è arrivata ultima e il suo calvario ha riassunto tutti gli
altri: centinaia di migliaia di morti e sette milioni di profughi, due milioni
dei quali bambini e seicentomila in fuga solo dalla regione di Aleppo. Un esodo
in corso fin dal primo giorno. Da quando, cioè, fallita la sollevazione di piazza
nazionale, gli insorti fecero di Aleppo la loro capitale. Una storia lunga e
complessa, aggravata dal fiorire del Califfato di Isis sulle rovine di uno
Stato, prolungata da aiuti militari ai ribelli più o meno continui ma
insufficienti a portargli la vittoria finale. Fino all’ingresso in scena della
Russia, dagli obiettivi limitati, soprattutto quelli “ideali”, egoisti ma razionali,
comprensibili: la difesa dell’unico Paese a offrire alla flotta di Mosca una
base nel Mediterraneo, senza parentele ideologiche ma per interesse.
Putin ha capito
presto che aveva bisogno della fine di quel conflitto e propose ben presto un
intervento militare congiunto con l’America. Se ne parlò, non se ne fece nulla,
il Cremlino agì da solo. Con l’arma tradizionalmente più “americana”:
l’aviazione. Bombardò da sola, ripetendo che chi si volesse unire era il
benvenuto. Pare che infine lo abbiano ascoltato, certamente senza amarlo. Una
parte dell’opinione pubblica americana, quella definita dei “falchi”, reagisce
all’armistizio promesso come fosse di fronte a una dichiarazione di guerra. Non
dimentica che negli Usa siamo in piena campagna elettorale. Che di rado aiuta a
far prevalere la ragionevolezza, soprattutto in politica estera. Le rimane
fedele come sempre il Segretario di Stato John Kerry, l’uomo dei miracoli.
Qualcuno appena ieri lo ha proposto per la Casa Bianca.