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Neppure la quarta tappa è riuscita a fermarlo



Alberto Pasolini Zanelli
Neppure la quarta tappa è riuscita a fermarlo. Parliamo di Donald Trump, che ha fatto piazza pulita dei suoi rivali nell’ultima primaria repubblicana, celebrata nel Nevada, che doveva essere il suo punto debole, perché con una elevatissima presenza di “latini” fra gli elettori e addirittura due concorrenti: Ted Cruz e Marco Rubio. È accaduto invece il contrario: Trump ha preso la sua parte di voti nelle minoranze etniche e ha fatto addirittura il pieno dei “bianchi”. Ormai è chiaro che non si ritirerà ed è sempre meno probabile che uno dei due rivali possa superarlo. Tanto meno Cruz, che si era impegnato a fondo in un tentativo motivato probabilmente, ma non solo, dalla condizione che la strategia migliore di fronte al malumore attualmente prevalente nel pubblico americano di mostrarsi sempre un po’ più “duro”, intransigente, spregiudicato di tutti gli altri. Insomma, imitare Trump. Per questo Cruz aveva abolito o soffocato tutte le remore tradizionali soprattutto nel Partito repubblicano che, non va dimenticato, è tradizionalmente stato quello degli “americani bene”, più istruiti, più colti, più ricchi e, dunque, più moderati. Mutamenti importanti di tono erano già stati peraltro segnalati in anticipo su quest’anno elettorale e molto prima che a qualcuno venisse in mente che Trump volesse candidarsi alla Casa Bianca. La nuova strategia è in parte frutto di un fenomeno storico quale la “radicalizzazione” della politica negli Usa, inaugurata ufficialmente con la creazione del Tea Party, punto di incontro di tutte le correnti di estrema destra e messo in funzione dopo la prevista doppia elezione alla Casa Bianca di Obama, democratico, “liberal” e per di più di pelle scura e di ascendenze addirittura islamiche.
La strategia è stata decisa immediatamente sette anni fa e si riassume in un “comandamento” e in una parola: “Non lasciarlo governare” e “ostruzionismo”. L’ultima occasione di mettere in funzione quest’ultimo è stata la decisione immediata di impedire al presidente di proporre un nuovo giudice alla Corte Suprema per sostituire il defunto Scalia. I repubblicani in Senato non si limiteranno a negare la ratifica a qualunque nome proposto dalla Casa Bianca, come è nei diritti del Senato, rifiuteranno anzi di aprire un dibattito e dunque di metterlo in votazione. Siamo in linea con Cruz, che questa strategia incarna meglio di chiunque, anche di Trump, le cui “uscite” sono imprevedibili e le cui posizioni a volte coincidono con quelle dei democratici. Egli aveva preparato un blitz, approvato in sostanza dall’establishment del partito, ma non aveva previsto (come nessuno, del resto) il fenomeno Trump. L’emergere di un candidato più a destra della destra del partito ma indipendente, imprevedibile e “capriccioso”.
Ad essere “rinnegato” nel Partito repubblicano è stato piuttosto colui che da più di trent’anni ne è diventato il Santo Patrono: Ronald Reagan. Gli hanno eretto statue, lo hanno canonizzato ma poi hanno detto e fatto il contrario di quello che faceva e diceva lui. Per fare solo qualche esempio, Reagan aveva promulgato dalla Casa Bianca la più generosa amnistia della storia per gli immigrati illegali. Aveva preso provvedimenti per limitare la circolazione di armi da fuoco. Si era servito di “stimoli” quasi keynesiani. Era un pragmatico, pronto a ogni compromesso che venisse incontro al cardine delle sue proposte. Era riuscito a far “passare” dal Congresso (dominato dai democratici così come quello di oggi lo è dai repubblicani) le sue principali proposte appellandosi agli elettori di ogni partito. E in politica estera aveva scelto le trattative non solo con gli “amici” ma con avversari e nemici. Col risultato di dare la spinta decisiva al crollo del sistema comunista mondiale, ottenendo e facendo concessioni, diventando amico di Gorbaciov fino al punto degli abbracci e delle pacche sulle spalle. Il suo fantasma non ha espresso giudizi su come la sua eredità è stata rispettata. Almeno finora.