Alberto Pasolini Zanelli
Des Moines (Iowa)
Chiamato ancora una volta a
inaugurare il tour d’Amerique elettorale, l’Iowa pacifico e gelato si è chiesto
per tutto il giorno se sarebbe arrivato prima il risultato definitivo della sua
“primaria” oppure la tempesta di neve ghiacciata. Il tifo e le previsioni erano
per quest’ultima. Invece è accaduto il contrario, non perché la bufera si sia
abbattuta in anticipo, ma perché la proclamazione dei vincitori è stata
rinviata, forse sine die per una
serie di “incidenti” negli scrutini. Hanno votato subito dopo l’ora di cena e
hanno passato la notte ad aspettare, invano, un habemus papam. Doveva essere una papessa incarnata da Hillary
Clinton superfavorita in una gara per la nomination del candidato del Partito
democratico alla Casa Bianca, che aveva in pratica due soli concorrenti, dal
momento che il terzo, un decoroso ex governatore del New Jersey, si è ritirato
non appena si è accorto che non sarebbe arrivato neppure all’1 per cento.
Hillary avrebbe dovuto “passare” comodamente, perché neppure l’avversario
rimasto in piedi pareva avere grandi possibilità: il settuagenario senatore
Sanders, unico indipendente alla Camera Alta, debuttante come candidato a
cariche nazionali, si presentava con un programma che sembrava garantirgli di
prendere pochi voti: si proclama socialista, identità politica che in America è
ignorata o esecrata e come cardine del programma ha l’aumento delle tasse ai
benestanti.
Quando hanno cominciato a contare
le schede si è visto, invece, che crescevano e si moltiplicavano in fretta e le
quotazioni di Sanders erano anzi sullo stesso piano di quelle della
superfavorita, che anche lei era stata senatore, poi ministro degli Esteri e
soprattutto moglie di presidente e si presentava come progressista moderata. Lo
scrutinio è così rimasto quasi subito praticamente bloccato: la distanza tra la
favorita e lo sfidante non solo non accennava a crescere, ma semmai si
restringeva. A un certo punto c’erano sei voti di differenza in tutto, ben
pochi per potere annunciare la vittoria. Ma Hillary ci contava tanto, anzi ne
aveva tanto bisogno e lo ha fatto lo stesso con un discorso breve e affettuoso.
Che è stato, però, immediatamente contestato dai compagni di partito
sostenitori dell’Altro. Si è dovuto rinviare, così, anche il discorso di
felicitazioni del presidente uscente Obama e anche gli esponenti democratici
convenuti a Seattle per godersi l’annuncio della vittoria della prima tappa di
questo tour e tornarsene a casa prima della bufera di neve, hanno dovuto passare
al gelo gran parte della notte e “godersi” uno spettacolo meno interessante: la
proclamazione del vincitore della primaria repubblicana.
Lì non erano in tre, bensì in
diciassette, compresi tutti gli esponenti più famosi e quotati. Eppure hanno
finito con tanto anticipo sui rivali tradizionali. Però non sono state
risparmiate neanche a loro le sorprese. Anzi, sono stati investiti dalla più clamorosa:
la “caduta” del favoritissimo, almeno di quella prima prova, quella specie di
orco che si chiama Donald Trump e che, debuttante in politica dopo una vita
passata ad accumulare miliardi con le iniziative edilizie, particolarmente nel
settore degli alberghi di lusso e ancor più in giganteschi palazzi per il gioco
d’azzardo, soprattutto a Las Vegas. Considerato un “senza partito” fino a pochi
mesi fa, Trump era “esploso” come un repubblicano d’assalto. In tutte le
polemiche, interne e nazionali, ha assunto posizioni dell’estrema destra, sia
in economia (lui le tasse le vuole invece diminuire), sia nelle situazioni di
emergenza come la fobia per gli immigrati illegali, la proposta di espellerli
dagli Stati Uniti tutti gli undici milioni, la richiesta di una “mano dura” nei
codici e nella polizia, il sostegno alle pene draconiane, a cominciare dalla
pena di morte. E soprattutto nella politica estera: ulteriore aumento del
bilancio militare americano (che già soverchia quello degli altri dodici
maggiori potenze del pianeta sommate). Tutto questo non in contrapposizione
alla linea del partito, ma in concorrenza con gli altri “falchi”, che per
coincidenza sono entrambi di origine cubana e senatori entrambi del Sud conservatore,
Marco Rubio e Ted Cruz, che si sono gettati nella mischia per fare concorrenza
a Trump e sbarrargli la strada, incitati dall’establishment del Partito
repubblicano, che è sempre più conservatore, ma intende salvare le forme. Cruz
e Rubio si sono combattuti aspramente per assicurarsi questo ruolo, prodromo
alla candidatura alla Casa Bianca: Rubio più misurato e formale; Cruz ideologico
senza remore e degno rivale del plurimiliardario da corsa. Che si aspettava di
vincere (anche se l’Iowa non è fra i terreni a lui preferiti) e invece si è
visto preceduto e distaccato ben presto negli scrutini da Cruz e a poco a poco
anche incalzato da Rubio. Ha salvato all’ultimo momento il secondo posto, fra
la sorpresa generale e in una situazione per lui politicamente “piccante”: il
superpatriota americano poco amico degli immigrati è finito chiuso in una
gabbietta tra due cubani. Proprio nel momento in cui Obama, cui aspira a
succedere, si è appena abbracciato con Fidel Castro e suo fratello. Una lunga
notte piena di sorprese, insomma, nella capitale dell’Iowa e un trasferimento
un po’ simile a una fuga alla volta del secondo appuntamento: martedì prossimo
nel New Hampshire. Dove Trump potrà recuperare e Sanders trovare orecchie ancor
meglio disposte al suo inedito vangelo socialista.