Alberto Pasolini Zanelli
Elezioni americane,
terza e quarta tappa. Contemporanee ma non omogenee. I democratici si sono
incontrati nel Nevada, i repubblicani nel South Carolina e, da quel che si
dice, non è cambiato niente. Ha vinto il solito Trump, si è difesa la solita
Clinton. In superficie la novità più grossa è stata l’ennesima sconfitta di Jeb
Bush e soprattutto il suo conseguente ritiro dalla gara. Il South Carolina era
la sua ultima spiaggia o almeno quella della sua famiglia: il babbo e il
fratello avevano vinto grosso, ai loro tempi e Jeb, la cui campagna elettorale
superfinanziata è stata uno storico fallimento, si era tirato dietro in quello
Stato del Profondo Sud il predecessore George W. e la mamma. Ha fatto peggio
del solito, il che sorprende per quello che riguarda la genitrice, molto meno
per il fratello maggiore, rimasto profondamente impopolare in conseguenza dei
risultati della sua guerra in Irak di tredici anni fa e le conseguenze oggi. È
finita la sua presenza, ha reso di nuovo attuale le polemiche dei tempi di
Bagdad e di Saddam Hussein ed evidentemente anche uno Stato conservatore e
“militarista” come quello del Profondo Sud non la pensa molto diversamente
dagli altri in proposito.
In campo
repubblicano la vera battaglia era fra i due “cubani”, Ted Cruz e Marco Rubio,
esponente il primo dell’estrema destra del Tea Party, “cocco” il secondo di un
establishment che ha vede la crisi dei suoi seniores e alleva un quarantenne
nel tentativo di fermare Trump costruendogli un avversario più accettabile.
Cruz e Rubio sono arrivati praticamente sullo stesso piano, con poche migliaia
di voti di differenza, attorno al 20 per cento e Trump, come al solito, ha
vinto, superando nettamente il 30 per cento. Questo nonostante che sia
incappato pochi giorni fa in una polemica addirittura col Papa che lo ha
delineato come “non cristiano” in uno degli Stati più religiosi d’America.
I democratici
invece in South Carolina si incontreranno la settimana prossima. Per adesso si
sono confrontati nel Nevada: Hillary Clinton, che aveva dalla sua l’intero
establishment del partito, avrebbe dovuto trionfare. Invece ce l’ha fatta, ma
superando di poco il 50 per cento, tallonata ancora una volta da Bernie
Sanders, ovvero da “colui che non può vincere” in quasi tutti i sondaggi e
rigorosamente in tutte le analisi degli economisti, compresi quelli di
sinistra, come il premio Nobel Krugman, il più agguerrito “rosso” d’America,
che lo definisce acerbamente un “sognatore incompetente”. Opionione, si è
visto, largamente diffusa. Tranne che dagli elettori, che appunto gli hanno
tributato finora ovunque percentuali attorno al 50 per cento. In Nevada il 47.
Il South Carolina, dove si affronteranno di nuovo fra una settimana, dovrebbe
essere un suo punto debole, perché ha un’altissima percentuale di afroamericani,
che sono il gruppo etnico più povero, che sono in massa democratici, ma
preferiscono i democratici più moderati, mentre a votare per il “socialista”
Sanders sono i bianchi, soprattutto se giovani.
Insomma, a fare
bella figura sono stati finora due candidati che non avrebbero dovuto esserci,
la cui esistenza politica era praticamente nulla. Trump era notissimo come
miliardario, audace finanziere, proprietario di famosi alberghi, costruttore di
grattacieli e invece ha trovato evidentemente la formula per riciclarsi in
politico-antipolitico. “Litigato” con tutti, compreso Papa Francesco (con cui
però si sono in qualche modo riconciliati proclamando l’uno la sua profonda
stima per il Pontefice e facendo sapere l’altro che le sue espressioni sui “non
cristiani” non riguardavano Trump).
Ma il paradosso di
Sanders è ancora maggiore. È senatore da oltre vent’anni, ma nessuno ne ha
sentito parlare su leggi importanti per tutto quel tempo. È candidato alla Casa
Bianca per il Partito democratico, di cui non fa parte. Finora si è fatto
eleggere come indipendente. Si proclama “socialista” ma in Senato siede nel gruppo
parlamentare democratico. È ebreo ma non ne parla mai, anche perché non risulta
molto credente. Fa risalire le sue origini alla Polonia, da cui è partito suo
padre. Non ha finanziatori, non dispone di nessuna organizzazione degna di
questo nome, non è particolarmente amato da Obama. Sfiora gli 80 anni e,
dicono, “ne dimostra di più”. I sondaggi di primavera lo danno brillante perdente
nelle primarie e quindi non candidato. Sono appena usciti, però, i sondaggi
sulle “vere” elezioni, quelle di novembre. Ed è venuto fuori che se Bernie
riuscisse ad essere candidato, batterebbe tutti gli avversari repubblicani che
gli capitasse di affrontare, da Trump a Cruz a Rubio. E, fino a ieri, a Bush. È
un laico che non crede nei miracoli ma che potrebbe finire per diventarne lui
uno.