Alberto Pasolini Zanelli
È stato un weekend
importante per l’America e per il mondo. A causa di due campagne elettorali.
Una in Iran, dove secondo i primi dati guadagnerebbero terreno i “moderati”,
fra l’altro favorevoli a quel trattato con Washington che anche a Washington è
sotto il tiro dei “falchi” e che è stato uno dei temi del penultimo test
elettorale: le “primarie” democratiche del South Carolina, dove un candidato ha
vinto con una percentuale finora neppure sognata da nessuno dei suoi
concorrenti: i tre quarti delle schede. Il trionfatore è Hillary Clinton, prediletta
dall’establishment, ala destra della sinistra e ala sinistra della destra, di
grande esperienza politica accumulata come senatore, come ministro degli Esteri
e come moglie di un presidente. Aveva un solo avversario in South Carolina e
fragile e quasi privo di mezzi finanziari ma che in un’altra occasione recente
l’aveva sorpresa e sconfitta. Bernie Sanders si è fermato a quota 26 per cento,
il suo minimo che però sembra destinato ad essere più la regola che l’eccezione
nei numerosi Stati del Profondo Sud, che alle urne ci vanno oggi per il
fatidico Supermartedì. Sono undici, in contrasto con lo sgocciolio delle
primarie finora, una alla settimana. E sono in grande maggioranza appunto nel
Sud: il Texas, la Georgia,
la Virginia,
il Tennessee, l’Alabama e l’Arkansas, più o meno “gemelle” politiche del South
Carolina, che potrebbero ma non dovrebbero assomigliarle numericamente. La Clinton vi ha colto non
solo i tre quarti dei voti totali, ma addirittura i sei settimi degli elettori
“neri” e quasi il 90 per cento delle donne di quel colore. Anche il voto bianco
è andato a Hillary, anche se di stretta misura. A Sanders è rimasta una
maggioranza solo del voto bianco maschile e giovanile. Negli altri Stati della
ex Confederazione dovrebbe andare più o meno così, anche se in misura più
moderata.
Ma si voterà anche
fuori dal Sud e qui Sanders ha delle chance: non tanto nel Vermont, che egli
rappresenta in Senato ma che è il meno popolato dell’Unione, quanto in
Minnesota, Colorado, Oklahoma e soprattutto Massachusetts e forse l’unico dove
un candidato che si presenti sventolando l’autodefinizione di “socialista” non
venga accolto con sorrisi di compatimento, magari affettuoso. Quello di cui
Sanders ha bisogno in questo turno è sopravvivere, cioè impedire che la Clinton “chiuda” la
contesa prima che si arrivi a votare nei grandi Stati industriali che, da New
York alla California, sono molto più generosi con i “liberali”.
Ma la vera
battaglia continua a svolgersi, compreso il voto odierno, tra i repubblicani e
ha toni molto più accesi e meno “cavallereschi”. Anche in conseguenza della
personalità di colui che è fino a questo momento in testa e che è considerato
dall’establishment come un pericolo. Donald Trump è estraneo alle tradizioni
repubblicane. Se l’establishment democratico sostiene Hillary Clinton perché è
una di loro, quello repubblicano considera Trump una calamità. La limitata
popolarità del presidente Obama aveva incoraggiato il partito d’opposizione ad
attenersi a una strategia di intransigenza basata sulla fiducia della vittoria
e su una “linea” decisamente conservatrice basata sulla sicurezza della propria
superiorità.
Anche i
repubblicani avevano a disposizione una dinastia: contro una Clinton, un Bush,
fratello e figlio di un presidente. Tutto si aspettavano tranne che di essere
“aggrediti” da destra. Trump si è gettato nella mischia sventolando la bandiera
della “guerra totale”, ma non tanto contro i democratici quanto contro i suoi
colleghi di partito, mettendoli in gravissima difficoltà. Bush si è dovuto
addirittura arrendere dopo un debutto di sorprendente mediocrità e altri lo
hanno seguito. In gara sono rimasti due conservatori in lotta feroce fra di
loro: Ted Cruz, senatore del Texas e Marco Rubio della Florida. Entrambi “falchi”,
entrambi di origine cubana ma ideologicamente distinti: Cruz proviene dal Tea
Party, che contesta da destra i “moderati”; Rubio è invece scelto
dall’establishment perché meglio accetto alla destra, evitando alcune punte
estreme. I due hanno finora mostrato una forza di attrazione pressoché identica
sugli elettori, ma se continuano così ne divideranno le forze e renderanno
inevitabile che sia Trump a conquistare la nomination del Partito repubblicano.
E dunque a battersi in novembre con la Clinton, che in questo momento forse potrebbe
arrivare prima alla Casa Bianca. A occuparsi, fra l’altro, del trattato con
l’Iran.