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La Libia fa fretta al mondo

Alberto Pasolini Zanelli
 
La Libia fa fretta al mondo, per i suoi tragici problemi interni ma anche – questa è semmai la novità – perché rischia di diventare un punto di forza della minaccia globale jihadista. I guerriglieri islamici dell’Isis hanno perduto ultimamente un po’ di terreno in Irak e soprattutto in Siria, grazie in questo caso principalmente all’intervento russo. Ma in Libia, lontana dal Caucaso e dai Dardanelli, Putin non sembra voler mettere dito e i protagonisti tradizionali continuano a giocare le solite carte con il solito insuccesso. L’America dimostra di non disinteressarsi di Tripoli e Bengasi e neppure l’Europa e perfino l’Italia, più per la contiguità geografica che in memoria delle passate responsabilità di potenza coloniale. Che forse sono maggiori e peggiori di quello che siamo abituati a pensare: i coloni italiani di 105 anni fa, quelli di “Tripoli bel suol d’amore” strapparono ai turchi la Tripolitania e la Cirenaica, due entità ben distinte, ma poi arrivò Mussolini e resuscitò il nome Libia perché era quello dei tempi di Roma. Forse era passato troppo tempo perché i bengasini e i tripolini non si sono mai sentiti compatrioti (i primi condussero una dura politica anticoloniale, i secondi si arrangiarono molto meglio con l’Italia), tanto meno adesso che la loro “patria” artificiale si è del tutto smembrata. Ci sono, in teoria, un governo e un Parlamento a Tripoli e un altro a Bengasi che si parlano, nella migliore delle ipotesi, tramite ambasciatori, come due Paesi sovrani e distinti, che qualche volta stipulano accordi e per il resto accontentano il mondo esterno che li vorrebbe riunificati.
Ma il guaio è che di governi in Libia ce ne sono altri. Ce n’è soprattutto uno nella Sirte ed è quello dell’Isis. In un certo senso è una colonia del potere jihadista insediato nel deserto siriano di Raqqa e che è sottoposto a controffensive più o meno “occidentali” che hanno portato alla riconquista di Ramadi. Se le cose continueranno ad andare così, il Califfo potrà fare le valigie e trasferirsi a Sirte, luogo molto più riparato da pericoli esterni. Se davvero l’Isis vi concentrasse i suoi tagliagola, disporrebbe di una “fortezza” ancora più ardua da espugnare di quelle nel Medio Oriente vero e proprio. Un’ipotesi che semina brividi in giro, al punto che i due governi e i due parlamenti delle due Libie si sono spinti fino a trattare, con il patrocinio dell’Onu e a firmare, in un luogo tranquillo del Marocco, un trattato che non sancisce una riunificazione ma almeno una sorta di alleanza contro la “terza Libia”, quella di Sirte.
L’annuncio non ha sollevato grandi entusiasmi perché non contiene clausole che realmente facciano pensare, neppure in prospettiva, a una riunificazione del Paese. Ad avere più fretta sono semmai gli occidentali, anche perché un massiccio intervento militare, soprattutto aereo, che gli Stati Uniti e i loro alleati, in particolare l’Italia, stanno a quanto pare preparando, richiederebbe un “consenso” di un’entità politica e giuridica locale, per esempio la riunificazione delle due entità statali simboleggiata dal ritorno della capitale a Tripoli.
Ne siamo ancora lontani. Forse per questo si affacciano ora, timidamente, due “soluzioni” alternative. Due restaurazioni: o un re o un Gheddafi. La nostalgia per la monarchia è fievole e non molto radicata. È passato troppo tempo da quando il monarca, Idris el Senussi, è stato abbattuto da un golpe militare. Breve era stato il regno, installato dagli inglesi dopo la cacciata degli italiani dalla Libia nel 1942. Gheddafi cacciò il re nel 1969, si impegnò a fondo nel distruggere ogni traccia della monarchia: cambiò la bandiera, mise al bando o addirittura arrestò tutti i membri della famiglia reale, “dissacrò” la reggia trasformandola nella sede di uffici e, verso la fine del suo potere, in un museo per le antichità classiche. Quando Idris morì (in esilio in Egitto come l’ultimo re d’Italia) nel 1983, a Gheddafi rimanevano ancora 28 anni di potere, che gestì come il mondo si ricorda in modo prevalentemente erratico e semmai più “ragionevole” negli ultimi tempi quando, in un accordo con l’America, rinunciò ai suoi sogni nucleari. Fu l’Occidente, tuttavia, ad abbatterlo e, sostanzialmente, ad ucciderlo in una esecuzione in un angolo di deserto. Fu uno dei gesti che, dall’Irak in giù, contribuirono a destabilizzare totalmente il mondo islamico. Gheddafi era un militare, un eterno colonnello. Non risulta che abbia nostalgici, ma forse almeno un imitatore. È un generale, Khalifa Haftar: egli è, a quanto pare, popolare quasi quanto ambizioso e questo soprattutto perché si presenta a viso aperto come un guerriero contro l’estremismo islamico, con un appoggio popolare soprattutto in Cirenaica. E ripropone localmente una costante nella storia recente del Medio Oriente: i dittatori come sola alternativa pratica alla dittatura del caos e del fanatismo.
Pasolini.zanelli@gmail.com