Alberto Pasolini Zanelli
La campagna elettorale americana è
cominciata nel giugno scorso, oppure ieri l’altro. Dipende da quale dei tanti
dibattiti che hanno costituito finora una sorta di spettacolo itinerante, dal
Nord al Sud, dall’Est all’Ovest dell’immenso e svariato Paese. Chi ha ascoltato
o si è sforzato di ascoltare un po’ tutti, si chiede oggi se questa serie di
dialogo politico sia però coordinato e coerente. Perché chi ha ascoltato giovedì
sera il duello oratorio fra Hillary Clinton e Bernie Sanders ha avuto la
sensazione di trovarsi nella platea di uno spettacolo completamente diverso. Fino
a ieri l’altro i dibattiti avevano coinvolto tutti i candidati alla Casa Bianca
di entrambi i partiti, in forma varia ma a suo modo coerente: era stata soprattutto
la “presentazione” dei pretendenti alla Casa Bianca, vi sono emerse soprattutto
le personalità, che hanno soverchiato quasi ovunque il confronto fra i
programmi.
Ecco perché il protagonista
assoluto, in tutte le occasioni tranne una prevalente, è stato Donald Trump,
che ha messo in risalto il più possibile la propria unica esperienza, le
proprie qualità eminenti ma discutibili, il proprio vigore di polemista. Il
tutto nell’ambito di un Partito repubblicano che si è presentato all’appello
del 2016 con ben diciassette candidati alla carica suprema, divisi non soltanto
dalle ideologie quanto dai modi di esporre e di presentarsi. Questo ciclo è
terminato e di Trump sappiamo soprattutto “che tipo è” e dunque lo stesso dei
suoi concorrenti, che anch’essi hanno finora puntato soprattutto nel proporsi
come carattere adatto a questa o quella fetta di elettorato: tutto
sostanzialmente di destra, ma di varie sfumature: i conservatori economici, i
conservatori “culturali” e dunque religiosi, i conservatori “imperialisti”, i
conservatori prudenti. E anche le contese sono avvenute soprattutto all’interno
delle singole “tendenze”, fra i “moderati” dell’establishment e i
“contestatori” a partire appunto da Trump.
L’ultima volta erano di scena i
democratici e tutto è stato differente per diversi motivi. Il primo,
elementare, è che loro invece che in diciassette come i repubblicani, erano in
tre, che sono diventati due perché il terzo, dopo una decina di minuti, l’ha
messa persa e se ne è tornato a casa. Sono rimasti i due più diseguali: Hillary
Clinton rappresentante dell’intero altro establishment, colorita e famosa, ex
senatore, ex ministro degli Esteri, moglie di ex presidente e donna: vale a
dire che se vincerà in novembre sarà il primo presidente femmina degli Stati Uniti.
Più concretamente Hillary Clinton rappresenta la continuità, il compromesso,
l’opportunismo, il buon senso, un’esperienza terra terra. Il suo avversario è
il contrario in tutto tranne che nell’appartenenza partitica. È un debuttante
nella corsa alla Casa Bianca, ha un curriculum che si limita a una lunga
esperienza di senatore, è anziano (se eletto sarebbe il decano della carica,
superando anche il record di Ronald Reagan). È anche il primo ebreo. E
soprattutto il primo “socialista”. Se vogliamo, anche il primo candidato
democratico alla Casa Bianca che non è neppure membro del Partito democratico. È
nato alla politica in un partitino socialista, ed è cresciuto come indipendente
fruendo però dell’ospitalità dei democratici nel loro gruppo parlamentare. Per
un po’ non l’hanno preso molto sul serio, considerandolo comprensibilmente un
eccentrico, non solo perché ammette ma addirittura proclama le proprie
convinzioni socialiste e questo in un Paese come l’America che nei sondaggi si
esprime così: 6 su cento non eleggerebbero mai, oggi come oggi, un cattolico; 7
su cento escluderebbero un ebreo o un nero; 24 su cento non sceglierebbero mai
un omosessuale; 35 su cento direbbero “mai” a un musulmano e più del 50 per
cento non si sognerebbero mai di votare per un socialista. La parola li fa
pensare a Stalin o, i più colti, a Lenin. Marx è una immagine sfumata, tanto è
vero che ignorano che il partito da lui fondato nel diciannovesimo secolo lo
chiamò socialdemocratico.
Come si fa allora a proporsi con
questa etichetta e per di più intitolando il proprio programma “Rivoluzione
politica”? Si fa così: si denuncia una situazione di cui tutti gli americani
sono a conoscenza, non tutti con entusiasmo. È la “clausola” dell’1 per cento.
La fettina dei cittadini Usa che detiene, pare, il 90 per cento abbondante
della ricchezza nazionale, come conseguenza di recenti sviluppi economici e
soprattutto della “rivoluzione tecnologica” e della liberalizzazione degli
scambi. Investire all’estero costa meno che in patria, assumere un robot meno
che pagare un operaio. La conseguenza è la concentrazione senza precedenti
della ricchezza e di conseguenza anche del potere politico. Più o meno lo
riconoscono anche i repubblicani, che però non ci trovano nulla di male. Lo
riconosce Hillary Clinton e promette, se tornerà a vivere alla Casa Bianca, di
proporre riforme importanti, fra cui un ulteriore allargamento delle maglie
della sanità pubblica rispetto alle riforme di Obama o un intervento dello
Stato per consentire anche ai figli di famiglie a basso reddito di frequentare
studi superiori, più altre riforme di contenuto “sociale”. Anche Sanders le
vuole, ma pressappoco tutto e subito. La Clinton gli ha spiegato anche l’altra
sera che non ci sono i soldi nelle casse pubbliche per finanziare contemporaneamente
queste riforme e quindi propone di fare dei passettini avanti ora qui, ora là.
Sanders volta le spalle a questa interpretazione. Per lui la crescente
diseguaglianza economica non dipende tanto dalle leggi, quanto da una sentenza
della Corte Suprema che di recente ha abolito tutti i limiti ai finanziamenti
privati ai candidati e ai politici in genere, con il risultato che i candidati
che sostengono le grandi imprese, soprattutto finanziarie, affrontano le
elezioni avendo a disposizione tonnellate di dollari che gli “avvocati” del
ceto medio neppure si sognano e quindi il Congresso vota quasi sempre in favore
dei più abbienti. Ricetta di Sanders: una riforma sola. Si cambia quella legge,
miliardi di dollari non affluiscono più a certi gruppi di interesse, quindi
Camera e Senato fanno leggi a favore della classe media. Fin troppo semplice.
La Clinton dice che bisogna ragionare anche con la testa e non soltanto con il
cuore. Sanders risponde definendo il suo progetto “rivoluzione politica”.