Alberto Pasolini Zanelli
Sono rimasti in due i candidati alla
Casa Bianca. Un repubblicano e un democratico, un conservatore e un “socialista”,
un professore universitario ultrasettantenne e un ex vicepresidente degli Stati
Uniti, copiosamente finanziato per tutta la campagna elettorale e “benedetto” da
un passato di stretta collaborazione con Barack Obama. Si chiama, naturalmente,
Joe Biden. Il solo avversario rimastogli per il momento sulla carta è l’attuale
discusso inquilino della Casa Bianca, Donald Trump.
Sono rimasti in due poche ore dopo
l’annuncio che si sarebbero battuti in tre. A completare la griglia di partenza
c’era stata, per poche ore, un altro aspirante democratico, professore e
socialista: Elizabeth Warren, che poche ore prima era uscita dal ring con la
sicurezza di potere anche lei arrivare in finale. Il sistema elettorale
americano è complesso (e più discutibile che discusso) suppone l’ultima data
prima del rito, una ultima assemblea di partito che formalmente elegge il
candidato. Quest’anno il presidente Trump non ha rivali in campo repubblicano,
i democratici sono partiti in una dozzina. I vari test preliminari li ridussero
a tre: Joe Biden, Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. Nessuno ha la maggioranza
assoluta, quindi gli ammiratori di Elizabeth avrebbero potuto decidere il match.
Lei lo ha annunciato saltellando di gioia sul palcoscenico poi, poche ore dopo,
ha annunciato la propria neutralità. In pratica che non inviterà ufficialmente a
votare il candidato democratico contro Trump. Ha spiegato ai delusi il perché,
che non è convenzionalmente politico. I voti ci sono e probabilmente ci
sarebbero il giorno del test finale se lei invitasse ad andare alle urne per “battere
Trump” e consolidare le “nuove ideologie” che lei e Sanders hanno in comune. A contrapporli
non sono i programmi, tranne – ed è un po’ sorprendente – la “questione femminile”.
Gli Usa non hanno mai avuto una presidentessa (sono arrivati al massimo alla
presidente della Camera), questa volta ci hanno provato in parecchie, il numero
si è gradatamente assottigliato, ma proprio in finale è riemersa la vecchia
questione: ci si può fidare di una donna alla testa della massima Superpotenza
della Terra? Alcuni hanno detto “no”, altri avevano saggiamente aggirato la
questione. Sanders ne è stato trascinato a sorpresa in forme che hanno incitato
Liz a rispondere polemicamente. Un duello breve ma finale. O così pare, dal
momento che devono passare ancora più di sei mesi fino al momento del voto.
Questo il tipo di motivi addotti,
ma non sicuramente credibili. La “defezione” della Warren sarebbe un gesto di
protesta per le “ingiustizie” perpetrate contro di lei dai Poteri Forti. Le gerarchie
di partito e anche, forse soprattutto, l’ineguaglianza delle irrogazioni
finanziarie. Questa campagna elettorale era stata caratterizzata fin dal principio
(per la prima volta in campo democratico e non repubblicano) addirittura con la
presenza attiva di due miliardari ufficialmente candidati e che non hanno posto
limiti di cifre, vale a dire di milioni. Indirizzati fin dall’inizio a diversi
aspiranti, di sesso maschile. Quando la selezione ha ridotto il campo
democratico a due (Sanders e la Warren) è riemerso il fattore sessuale: da una
parte la convinzione antica e tuttora viva che non è del tutto prudente
affidare il Paese per quattro anni a una donna, per motivi non specificati ma nell’area
del “carattere”. Accusa solita, solita anche la reazione nel lessico e nei toni
femministi, con alcuni piccoli scontri che hanno finito per coinvolgere Sanders
e incrinare l’inedito fronte “socialista”.
Scontri antichi in forme varie e
pittoresche. Nelle stesse ore in cui Elizabeth Warren ha pronunciato il suo “no”,
una donna di cento anni è stata arrestata e chiusa in cella, perché in un
diverbio con un poliziotto ha aggiunto un “calcetto”. L’hanno scarcerata dopo
poche ore. La Warren ha ancora tempo di riaprire la porta del suo volontario
eremo.