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La polemica continua, in molte arene e molto pubblico

Alberto Pasolini Zanelli
La polemica continua, in molte arene e molto pubblico. E molti toreri, anzi: forze dell’ordine e
contestatori dei loro eccessi. Siamo arrivati al settimo giorno della tragedia della violenza in
uniforme e le polemiche continuano su entrambi i “fronti”, anche se oggi sono più disperse e i toni
un poco più cauti. Ci sono ancora cortei per le strade delle supercittà d’America e, forse ancor di
più, nei luoghi costruiti per le post violenze e più diffuse e, forse soprattutto, con la violenza
verbale, che comincia a distinguersi da quella fisica. C’è ogni tipo di contestazione: quella di
ambiente scolastico, quella ancora più temuta nelle strade. Ma almeno le parole non corrono più
spesso dietro i gesti. Si eleva soprattutto il livello perfino anche un poco culturale ma soprattutto di
toni di coloro che parlano. Il “confronto”, tuttora più vivo, si accentra in luoghi come la Casa
Bianca o nelle altre sedi dove un’autorità può essere concentrata. È passata una settimana, ad
esempio, e sono sempre vive le parole e gli incidenti nati dal brutale assassinio di George Floyd
sulla strada strangolato dalle ginocchia di un agente e commemorato la sera scorsa in un luogo di
culto colmo di ribadite lacrime di ogni origine, da coloro che si sono più piegati ai più brutali gesti.
Ma le strade e gli altri luoghi pubblici non sono solo di massa: le parole che contano anche quando
violente fra autorità pubbliche, soprattutto da parte del presidente Trump e diversi suoi intimi
collaboratori che hanno cercato e trovato gli argomenti. Le critiche più taglienti rimangono quelle
dell’ex ministro dell’Interno e responsabile diretto della polizia militare, fino a poco tempo fa ed ora
uscito dal cerchio degli stretti ruoli alla Casa Bianca.
I toni continuano ad essere severi e non c’è indizio di riconciliazione. Nelle strade i toni sono solo
apparentemente diversi: minoranze sostanziose di agenti di polizia, soprattutto militare, si lasciano
trascinare dall’indignazione fino a “proporre” i cambiamenti di regole e di toni. Il “dibattito” più
“elevato” è fra un presidente degli Stati Uniti e alcuni reparti della polizia, che hanno inscenato per
le strade del centro di Washington (ma anche per le innumerevoli capitali di altri Stati), “quello che
non si deve fare” da ambo le parti da chi minaccia di violare la legge e chi per prevenire le
infrazioni si butta in braccio ai toni più espliciti e più taglienti. Primo esempio, quello dell’ex
ministro della Difesa Jim Mattis, che ha preferito la chiarezza nello scegliere fra un militare di
carriera che difende la dignità dei suoi commilitoni anche di fronte ai nemici e il presidente degli
Stati Uniti, vale a dire un leader politico dalle cui parole e gesti spesso dipendono le scelte della
gente dentro le urne e fra i candidati. Anche repubblicani. Che hanno annunciato apertamente che
non voteranno per il partito del presidente. “Quando l’ho ascoltato l’altro giorno, ho provato la
necessità di “parlargli contro” ufficialmente per denunciare definizioni e sentenze non accettabili.
Insomma di essere onesti di fronte al dovere di esprimere opinioni di forte intensità morale.
A Mattis si sono associati diversi colleghi, già pensionati o tuttora in carica nei luoghi di potere,
oggi particolarmente delicati se espressi in pubblico, per esempio in televisione. Anche perché
l’attuale inquilino della Casa Bianca non soffre certamente di timidezza e anche nell’ultima
occasione ha risposto con parole ferme ed ostinate. Gli esperti (che oggi agiscono soprattutto
obbedendo al dovere) mantengono anche nei toni la coscienza di un dovere che è anche esemplare.
Alcuni militari si sono spinti ad inscenare dei gesti e delle parole molto simili ma anche per questo
apertamente contraddittorie alle decisioni di Trump.
Pasolini.zanelli@gmail.com