Alberto
Pasolini Zanelli
Fedele sempre al
suo carattere e formazione e spesso alle sue abitudini di governo, Barack Obama
ha calato il suo atout su un tavolo che adesso non è più quello delle
trattative. La sua decisione è ferma e si chiama guerra, anche se l’attuale
presidente degli Stati Uniti (e premio Nobel per la pace) preferisce non
chiamarla così. La parola fatale l’ha pronunciata nel discorso alla nazione,
per noi notturno, in cui, rivolgendosi appunto al popolo americano e non a
interlocutori stranieri o al Congresso, ha non solo confermato che i
bombardamenti in Irak non sono stati un’azione-monito una tantum ma
continueranno fino alla vittoria. Una parola che Obama ha per la verità
evitato, sostituendola però con una formula meno splendente ma egualmente
impegnativa, fiera e cupa: “distruzione” del nemico. Il nemico è naturalmente
l’Isis, con la quale trattative e compromessi non sono più pensabili. E sono
sparite le clausole limitative e ambigue riguardanti il teatro di operazioni. Non
può solo l’Irak ma anche la Siria e, implicitamente, qualsiasi altra regione
del mondo in cui questa setta terroristica possa operare e minacciare gli
interessi americani. Anzi, nel lessico obamiano, “gli Stati Uniti e i Paesi
amici”.
Questo il monito
agli avversari. Subito dopo il presidente ha preso un impegno con i suoi
compatrioti: questa guerra non intende essere e non sarà paragonabile alle
spedizioni militari in Afghanistan e in Irak, in altri termini alle “guerre di
Bush”. Non si vedranno, per cominciare, “scarponi americani sul terreno”.
Niente mobilitazioni, niente divisioni e brigate di marines spediti in ostili
deserti, niente guerra di logoramento e soprattutto niente (questo almeno Obama
ha promesso) soldati morti. Quelli americani, si intende: a lasciare la vita
sul campo saranno solo i nemici (e magari anche – Obama non lo ha detto –
eventuali civili presi in mezzo alla battaglia, quelli che ufficialmente si
chiamano “danni collaterali”). Le azioni militari non saranno dunque senza
limiti, ma a definirli sarà la Casa Bianca, non il Congresso. Dopo avere
oscillato a lungo nella definizione dei poteri, Obama ha deciso che, dato il
tipo di operazioni previsto e la natura del conflitto e del nemico, non sarà
necessario un voto delle Camere: potere e responsabilità sono e saranno del
presidente degli Stati Uniti. Una formula che complessivamente dovrebbe piacere
al cittadino – e all’elettore – medio, come emerge fra l’altro dai sondaggi:
gli americani rimangono ostili a un impegno militare convenzionale, di quelli
che comportano il rientro a Casa degli eroi dentro cofani avvolti nella
bandiera, ma le atrocità dei jihadisti hanno alimentato una voglia di
rappresaglie. Decisiva è stata la decapitazione dei due giornalisti americani,
più perché americani che perché giornalisti, ma soprattutto per la forma
dell’esecuzione. Il Califfo Abu Bakr al-Baghdadi ha passato il segno,
scegliendo la forma che per le sensibilità occidentali riassume i concetti
della barbarie, della crudeltà e di quello che noi chiamiamo medioevo. Nemmeno
Bin Laden si era spinto fino a quel punto e del resto aveva quasi scomunicato
la Isis per i suoi eccessi, soprattutto se coincidenti con le stragi di
prigionieri, stupri di donne e olocausto di bambini arabi, musulmani o eretici.
Un collegamento che Obama ha trovato utile per chiamare a raccolta il maggior
numero possibile di alleati, soprattutto nel Medio Oriente e particolarmente
rivolgendosi ai re, agli emiri, agli sceicchi, soprattutto ai potenti del
petrolio che sono anche i più solventi. Obama tiene a distinguersi il più
possibile da Bush anche in questo, oltre che nel carico molto più ridotto
riservato agli amici europei. Sparita la formula imperiosa della campagna
contro Saddam Hussein: “O con noi o contro di noi”. Le ambiguità rimanenti riguardano
soprattutto la situazione parlamentare ed elettorale, la conservazione, pur
erosa, fra l’“ideologia” di questo presidente, una miscela fra l’amore di pace
e la predilezione per una forma futuristica di guerra. E soprattutto quella nei
riguardi della Siria: al governo di Bagdad ci si rivolge come a un naturale
alleato, mentre quello di Damasco è ignorato, pur essendo nemico dello stesso
nemico. Per motivi legati alle polemiche interne americane e ad altri settori
strategici.