Fra le molte
leggende, non tutte auree, che circolano su Vladimir Putin, per gli amici Volodja,
c’è quella della sua origine italiana. Veneta: un nonno o un bisnonno o chissà
quale avo emigrato in Russia per dare una mano a saldare i binari della
Transiberiana. La chiave delle genealogie sarebbe una diversa pronuncia del
cognome: non Pùtin ma Putìn, etimo dialettale per bambino. Da tempo il nipote,
o pronipote o bisnipote, si dà da fare come “volodja”, “saldatore”, per
reincollare i pezzi dell’immenso Paese fratturato dai troppi esperimenti e
choc. Se non è vera è ben provata perché descrive la funzione, l’ambizione, il
destino del secondo “zar” della Russia postcomunista. L’erede prescelto da
Boris Eltsin è il suo antipodo ma era stato il suo protetto e che nel modo di
agire è addirittura come tipo umano è il suo contrario. Il freddo è venuto dopo
il caldo, il giovane dopo l’anziano, il calcolatore dopo l’improvvisatore,
l’astemio dopo l’entusiasta della vodka, il sano dopo il valetudinario, il
postcomunista per necessità e calcolo dopo l’ex comunista divenuto
appassionatamente anticomunista. Il predecessore aveva “liquidato” Gorbaciov
perché convinto che, per arrivare a una rottura completa con il sistema
sovietico, c’era bisogno di improvvisazioni e di avventure, del dilagare
confuso di tante libertà, anche di quelle dolorose e meno oneste. Eltsin
credeva in una parola che alla Russia occorresse disordine. Ne ebbe anche
troppo e allora aveva bisogno di rimettersi in riga.
Una risposta alla
domanda insistente fatta a Putin su come egli sia arrivato al potere dal nulla,
l’ha data direttamente l’interessato: “Perché l’elite politica si era eliminata
da sola”. Ed era ora che si riordinasse in qualche modo la casa. Dopo l’uomo
della libertà quasi ad ogni costo, ecco l’uomo dell’ordine quasi ad ogni costo.
Un salvatore forse ma per adesso almeno un saldatore. È quello che Putin cerca
da allora di fare: ordine in una dose particolarmente robusta e con mezzi
alquanto spicci. Egli è convinto che i diritti dello Stato vengano, in un Paese
come la Russia,
prima di quelli dei cittadini. Dunque non vede alcun motivo di vergognarsi
della sua “vocazione” di gioventù, cioè della sua carriera nel Kgb. Nato di
povera famiglia, egli cercava soprattutto un buon posto di lavoro, una
carriera, prima di tutto una via d’uscita da un triste passato nella periferia
di Leningrado: coabitazione di diverse famiglie, cucina in comune, toilette in
fondo alle scale, torme di ratti ovunque, per strada risse tra bande giovanili.
Non sono voci pettegole: lo racconta Putin in un’autobiografia che lo rivela
brillante, pragmatico, spregiudicato, con tutto il cinismo necessario al suo
gioco ma anche di un senso dell’umorismo alquanto raro nel suo campo.
Fece carriera.
Esercitò il suo mestiere di spia. In Germania quando lo colse la caduta del
Muro di Berlino, novità che gli spiacque perché era il principio della fine
della Russia come Superpotenza e di un mondo di diarchia. Era necessario
riciclarsi. Il suo passato aveva procurato a Vladimir molte utili conoscenze,
fra cui quella di Anatoli Sobchak, un riformista ardente e ambizioso, un
“liberale” dei tempi eroici. Esisteva ancora l’Unione Sovietica quando Sobchak
fu eletto sindaco di Leningrado e subito decise di cambiare nome alla città e
di far rivivere Sanpietroburgo. Per amministrarla e trasformarla si portò
dietro un paio di collaboratori intimi, fra cui Putin. Come gesto simbolico inaugurò
ben presto un monumento ai perseguitati del terrore della Ceka, nome originale
del Kgb. Lo fece erigere davanti a quella che era stata la sede del Kgb, lungo la Neva, sul viale Robespierre.
Consiste in due sfingi gemelle, collocate l’una di fronte all’altra, entrambe le
facce divise simmetricamente, bianco contro nero, un occhio aperto, l’altro
chiuso. Le congiunge una lapide con una scritta breve: “A tutte le vittime
della repressione”. Sobchak li definiva “i grandi martiri della storia, l’eredità
permanente del comunismo”.
Putin non ha mai
pensato di avere fatto parte di una organizzazione criminale. Qualche anno più
tardi di ritorno da presidente da un viaggio in America e un soggiorno come
ospite privato, di famiglia, nel ranch del presidente Bush, che era stato capo
della Cia, alla domanda scherzosa se si fosse sentito a disagio a vivere “nella
tana del tradizionale nemico”, replicò: “A preoccuparsi doveva essere lui che
si era tirato in casa una spia del Kgb”. E rientrò a Mosca a portare avanti
quella marcia indietro che aveva cominciato verso una realtà più grigia,
tradizionale e, forse, più funzionale. Il putinismo si era rivelato ben presto
come un ibrido che si sforza di includere tutto, escludendo il minimo. Un po’
di economia di mercato, un pizzico di eredità comunista, un’ombra di vecchio
“kgbismo”: questa la nuova “ideologia russa”, predicata e praticata da un uomo
per tutte le stagioni e per tutte le paura, che si sforza di governare
selettivamente, adottando e adattando alcuni elementi di tutti i suoi
predecessori, anche e soprattutto il ruolo potente della Chiesa di Stato ortodossa
e zarista. Putin è convinto che il suo Paese debba piacersi così come è,
ritrovare la stima di sé restaurando un senso di ordine, di fervore patriottico
e di convinzione di essere una grande potenza. Nazionalismo innanzitutto. Putin
ha seppellito quel tanto che ritiene necessario del passato totalitario senza
appelli, non da liberale ma da patriota, da “saldatore” ma anche da convinto
salvatore. Se ha definito già anni fa la scomparsa dell’Unione Sovietica come
“la più grande disgrazia della storia”, non è certo da nostalgico del suo
sistema. A un intervistatore che glielo chiedeva, ha risposto in un modo
francamente ambiguo: “Nostalgico dell’Urss? Chiunque abbia un cuore lo è, ma
chiunque abbia un cervello può permettersi di esserlo”. Il Paese di cui egli ha
ereditato la guida ha pagato un prezzo altissimo durante il regime comunista ma
anche per liberarsene, in termini di stabilità, potenza, prestigio. La Russia ha dovuto rinunciare
a un impero, aprire le frontiere. Deve recuperare le forze, opporsi a chi di
quel passato approfitta per i suoi interessi di oggi. Occorre tenerlo presente
se si tenta di capire i motivi di questa fase aggressiva del revanscismo
putiniano così evidente soprattutto in Crimea e in Ucraina. La Russia ha subito
umiliazioni e più di un ricatto e deve oggi ripristinare il più rapidamente
possibile la sua dignità di grande potenza. In questo Putin si impegna anche
per questo evitando di infierire sul passato ma cercando anzi di ristabilire
una continuità nella storia patria, di recuperare tutto il possibile. Per
esempio le feste nazionali. In tempo sovietico erano sostanzialmente due: il
primo maggio e l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Entrambe erano state
abolite da Eltsin, sostituite l’una dalla celebrazione, l’8 maggio, della
vittoria nella Seconda guerra mondiale; l’altra da una Giornata della Concordia
Nazionale, che è cosa molto importante ma che non ha di suo una data. Finché
Putin non ha trovato la quadratura del cerchio: celebrare, guarda caso, nel
giorno della vecchia Rivoluzione, la “liberazione della Russia”. Da chi? Dai
Tartari? Da Napoleone? No, dai polacchi che occupavano Mosca e ne furono
cacciati nel 1612. Lo stesso anno, guarda di nuovo caso, dell’insediamento
della dinastia Romanov.
Per esempio, l’inno
nazionale. Quello dell’epoca sovietica aveva una musica potente e suggestiva e
un testo oggi impresentabile. Come questi versi: “Unione indistruttibile di
libere Repubbliche, creata nella lotta per volontà del popolo, patria della
libertà, fortezza fraterna dei popoli. Oh, partito di Lenin, forza del popolo,
guidaci al trionfo del comunismo”. Eltsin aveva abolito l’inno per sostituirlo
con un’aria di un’opera di Mikhail Glinka, “Una vita per lo zar”. Una bella
melodia, adattissima per l’alzabandiera nella trascrizione orchestrale, ma
senza testo e che dunque non avrebbe potuto cantarla anche se ne avesse avuto
voglia. Putin invece ha ripescato la musica dell’inno sovietico e ha incaricato
il paroliere, il novantenne Sergej Michalkov, di scrivere un nuovo testo.
Et voilà: “Ali
possenti si stendono su di noi, l’aquila russa ascende. Il glorioso tricolore,
simbolo della patria, guida il popolo russo alla vittoria. Gloria alla nostra
patria libera! La saggezza del popolo tramandata dagli antenati! Gloria a te,
mia patria! Dio è su di te!”. Così chi ama le nuove parole le canta e chi
preferisce le vecchie si può unire mugolando la melodia. Cantano il tricolore anche
i soldati, ma la bandiera dell’esercito è quella rossa con la falce e il
martello, non per il comunismo ma perché sotto quel vessillo la Russia ha combattuto e
vinto la Seconda
guerra mondiale. Sono dettagli da ricordare perché aiutano a capire tante cose,
soprattutto in questa fase di ritornante tensione, soprattutto pensando alla
Crimea, all’Ucraina, alle altre “terre irredenti”. Unità e concordia. Sulla
piazza Rossa c’è ancora il mausoleo di Lenin, con dentro la mummia che ben
pochi ormai visitano. Quando c’è una cerimonia ufficiale, si copre con un panno
il nome inciso nel marmo dal caldo colore. Chi guarda il mausoleo dalla piazza,
vede subito dietro, dentro le mura del Cremlino, una bandiera con l’aquila
zarista: è il vessillo personale del presidente, del saldatore.