Alberto Pasolini Zanelli (Washington)
Bombe, stavolta. E dove erano attese: sulla Siria, la destinazione più
urgente secondo una delle “scuole del pensiero strategico” a Washington, quella
che potrebbe chiarificare un quadro confuso e contraddittorio che si sta
stendendo da mesi sull’intera area del Grande Medio Oriente. Che può chiarire
ma può anche confondere ulteriormente le idee. Sul piano militare non c’erano
molte alternative. Bombe cadevano da tempo su ampie zone dell’Irak, non per
considerazioni a lungo termine ma come reazione all’invasione di una parte di
questo Paese e delle conseguenti atrocità. L’armata del Califfo non ha però
invaso un Paese: è dilagata in due attraversando le frontiere come fossero
inesistenti e ha anzi in Siria le sue basi più solide. Si proclama uno Stato e
ciò contrasta certamente con la terminologia diplomatica ma corrisponde a una
realtà che ha pochi precedenti. Il Califfato, l’Isis, non conosce frontiere
scritte e quindi da tempo era assurdo, soprattutto dal punto di vista militare,
considerare belligerante un suo pezzo e “neutrale” quell’altro. Il governo
americano ha esitato a lungo, tuttavia, prima di “arrendersi” alla logica
militare. Se lo ha fatto è perché ha ascoltato finora di più le voci che gli
raccomandavano di dare retta soprattutto alle conseguenze politiche, complicate
anche dal fatto che le decisioni via via prese da Obama in queste settimane apparivano
contraddittorie e deterioravano di conseguenza la credibilità di Washington. La
Casa Bianca ha detto e ripetuto che la
partecipazione diretta Usa non include gli “scarponi” e si limita alla guerra
aerea, arrotondandola con forniture di armi agli eserciti che si battono contro
le milizie jihadiste, che dovrebbero così formare con gli Stati Uniti una “alleanza
di volonterosi” del tipo che un predecessore di Obama, George W. Bush inventò
per dare un nome alla sua campagna unilaterale contro l’Irak di Saddam Hussein
e che, proprio per l’insuccesso di tale iniziativa in lungo tempo, non
raccoglie sufficienti consensi in patria. Inoltre una strategia del genere
rinnova nella memoria il fallimento della “crociata” contro il regime siriano
di Assad, che è bersaglio da oltre tre anni di una guerra civile che ha causato
oltre duecentomila morti e l’emigrazione forzata di quasi un milione di
cittadini. Non solo, ma le promesse occidentali di “aiuti” (che dovevano
consistere soprattutto in attacchi aerei) e il loro esito negativo sul piano
militare sono riuscite soprattutto a indebolire il regime senza abbatterlo e a
creare in gran parte della Siria un vuoto di potere in cui i jihadisti si sono
infiltrati fino a diventare il più forte avversario del regime, emarginando i
“moderati”. La Siria
è stata così per qualche tempo “trascurata”, anche perché l’Irak appariva il
teatro principale delle operazioni militari e politiche. Le incertezze si sono
prolungate, i contrasti si sono approfonditi in America anche all’interno
dell’Amministrazione Obama, mettendo a nudo le discordie fra i politici e i
militari, fra la Casa Bianca
e il Pentagono.
Anche l’appello
agli alleati appariva contraddittorio nelle diverse formulazioni e anche nelle
risposte. C’era chi voleva combattere l’Isis e chi insisteva nella strategia
iniziale in cui il nemico principale era Assad. L’esempio più esplicito quello
della Francia, “crociata numero uno” contro Assad così come lo era stato contro
Gheddafi (un’altra strategia fallita) e che poche ore fa ha confermato che bersaglio
del suo contributo aereo sarà l’Irak ma non la Siria. Più importante
la divisione emersa fra i Paesi, che va trasformando una insurrezione
integralista di una setta sunnita in una guerra generale fra sunniti e sciiti, appoggiati
i primi dall’Occidente in un capovolgimento strategico: Bush volle abbattere il
regime sunnita di Saddam Hussein per consegnare il potere agli sciiti, che ora
verrebbero invece “scaricati” per aiutare i sunniti. In contraddizione, ancora
una volta, con altre situazioni locali, che hanno visto ad esempio nelle ultime
ore azioni belliche congiunte fra l’aviazione Usa e le milizie sciite armate e “mantenute”
dall’Iran sciita, ancora considerato ufficialmente il nemico numero uno degli
Usa nel Medio Oriente. L’allargamento dell’area “bombardabile” dall’Irak alla
Siria corrisponde certamente alla logica non soltanto militare ma potrà avere
per conseguenza un ulteriore rimescolamento di alleanze, cooperazioni e
complicità. È forse meglio per ora considerarlo un “male minore”.