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Peer to Peer

Claudio Cerasa per "il Foglio"

Io e te. You and me. E’ successo con i taxi, con le televisioni, con le radio, con i giornali, con le banche, con il cinema, con i libri, con le serie tv, con il trading, con gli sms, con la cucina, con le guide, con il commercio, con gli affitti, con le vendite, con le macchine, con i noleggi e a poco a poco sta succedendo anche con la politica. 
Il principio, o meglio, il messaggio è ormai universale e vale più o meno come un passepartout: ragazzi, via, si è fatta una certa ora, il mondo va a una nuova velocità, i vecchi contenitori non funzionano come una volta, non sono amati, sono spesso disprezzati, ancora più spesso sono snobbati, e dunque, ovvio, per provare ad attrarre nuovi clienti, nuovi utenti, nuovi lettori, persino nuovi elettori è necessario fare uno sforzo per creare un nuovo involucro e dar vita a qualcosa che possa assomigliare a un mercato alternativo. 
Il ragionamento in fondo è lineare: i corpi intermedi rallentano la nostra corsa, non ci permettono di ottenere quello che vorremmo, di realizzare i nostri sogni, di semplificare la nostra vita, di viaggiare alla velocità a cui meriteremmo di viaggiare; e l’unico modo per essere in sintonia con il mondo che ci circonda – vale per l’imprenditore, per il politico, per l’uomo d’affari, per l’investitore – è quello di mettere in campo delle mediazioni diverse. Più dirette. Più istantanee. Più semplici. Più veloci. E, insomma, non mediate da nessun altro. Se non da due persone: io e te, you and me.
Il fenomeno del peer to peer, se volete, o dell’arte della disintermediazione, del tentativo estremo di voler ridimensionare i vecchi e screditati corpi intermedi, che è cosa più sottile del voler imporre una forma di populismo digitale, da un certo punto di vista è visibile anche nel mondo della politica e riguarda i più importanti leader del nostro paese: partendo da Silvio Berlusconi, arrivando a Matteo Renzi e passando anche per Beppe Grillo. 
Il caso di Renzi è forse quello più significativo. E sotto un certo aspetto, il segretario del Pd è stato il primo leader, quanto meno a sinistra, a trasformare in un punto di forza la battaglia contro i corpi intermedi. E’, sotto alcuni aspetti, con tutto quello che ne discende, in positivo e in negativo, il modello del governo Twitter: la vicinanza al mio follower è direttamente proporzionale alla mia lontananza dai corpi intermedi e più mi mostrerò distante dall’apparato, dai sindacati, dalla Cgil, dalla Cisl, dalla Uil, dalla Confindustria, dalla Confcommercio, dalla Confartigianato, dall’Anm, dal Csm, da Camusso, da Squinzi, da Sabelli più sarà facile essere percepito come se fossi davvero sulla stessa lunghezza d’onda dei miei follower (anche se poi, ovviamente, non potrà mai essere davvero così: perché io Tarzan, tu Jane). 
In politica, spesso, il modello viene usato per esercitare l’arte del dividere per comandare, dello scorporare per contare, del frazionare per decidere, ma viene anche usato per provare a creare un rapporto diretto con l’elettore. Io parlo con l’imprenditore, non con chi rappresenta le imprese. Io parlo con i lavoratori, non chi rappresenta i lavoratori. Io parlo con il giornalista, non con chi dirige il giornalista. Io parlo con il sindacalista, non con chi rappresenta i sindacalisti. Io parlo con i magistrati, non con chi rappresenta i magistrati. Io parlo con i pezzi di establishment, non con chi prova a rappresentare l’establishment. E così via, fino all’infinito. 
Ma l’arte della disintermediazione, allontanandosi a poco a poco dall’universo della politica, è un fenomeno che riguarda un mondo più complesso. Un mondo in cui la politica c’entra fino a un certo punto e in cui l’evoluzione del peer to peer ha creato quelle che gli osservatori colti chiamerebbero delle “grandi economie di scala”. E così, passo dopo passo, il modello della disintermediazione ha contribuito a migliorare alcuni specifici mercati. 
In principio il termine peer to peer venne soprattutto associato a quella pratica semi illegale (ricordate eMule?) grazie alla quale era possibile scaricare musica digitale scavalcando le grandi major – e facendole impazzire. La prima forma di peer to peer ha costretto il mercato musicale a reinventarsi, a cercare metodi innovativi di conquista dei consumatori, a stringere accordi con i nuovi distributori. Ed è anche grazie a questa spinta, e a questa dinamica di distruzione creativa, se giganti come la Apple sono stati in grado di proporre sul mercato modelli vincenti come iTunes. 
Il mondo musicale si è evoluto, le case discografiche si sono reinventate, il mercato si è trasformato, e passo dopo passo anche realtà apparentemente inossidabili come iTunes (e come la Apple) hanno trovato dei validi concorrenti. Senza la pressione sulle case discografiche prima del peer to peer e poi di iTunes difficilmente avremmo incontrato sulla nostra strada strumenti formidabili e potenzialmente alternativi anche allo stesso iTunes come Spotify (un servizio musicale che offre streaming on demand di una selezione di brani di varie case discografiche a cui, a oggi, si sono registrati 40 milioni di persone e i cui introiti finiscono al 70 per cento alle stesse case discografiche).
Senza la pressione di un’altra forma di disintermediazione estrema come lo streaming difficilmente avremo avuto a che fare con una grande invenzione come Netflix (società americana che offre servizi di streaming online on demand, accessibile tramite abbonamento, che dal 2011 produce contenuti originali sulla sua piattaforma, come “House of Cards”, e che ha trovato una giusta via di mezzo tra chi vuole vedere con facilità buone serie tv in streaming e tra chi non vuole pagare salati abbonamenti televisivi per vedere serie tv).
E senza la pressione di un’altra notevole forma di disintermediazione come quella del citizen journalism difficilmente i giornali americani (solo quelli purtroppo) si sarebbero accorti che il giornalismo del futuro non può fare a meno di una buona dose di collaborazione tra professionisti del giornalismo e amatori del giornalismo.
Io e te. You and me. 
“Un tempo – sostiene Patrice Flichy, professore di Sociologia presso l’Universite Paris-Est Marne-la-Vallée, in “La società degli amatori” – si diceva che la disintermediazione avrebbe ucciso la musica, che avrebbe fatto fuori il cinema, che i blog avrebbero ammazzato la stampa, che le enciclopedie sarebbero state sostituite da Wikipedia, che le trasmissione televisive avrebbero ceduto il posto a semplici video diffusi su Internet, e così via.
Non era vero nulla: così come il giornalista per sopravvivere all’avanzata dei bravi blogger è stato costretto a migliorare le sue performance, allo stesso modo chi stampa enciclopedie, chi produce film, chi fa musica è stato costretto a migliorare i propri servizi. I migliori sono sopravvissuti, i peggiori sono stati spazzati via dal mercato. E in politica oggi funziona più o meno così”.
Gli esempi migliori per capire gli effetti positivi prodotti dall’era della disintermediazione si trovano ovunque anche nelle cronache più recenti dei giornali. Si potrebbe parlare di come Airbnb, migliorando un vecchio servizio americano chiamato Craiglist, abbia contribuito a indebolire l’universo delle agenzie immobiliari, e far insorgere gli albergatori di molti paesi per via dei servizi offerti a costi decisamente fuori mercato (in tutto il mondo sono 10 milioni le persone viaggiano con Airbnb. Fino a un anno fa erano appena 4 milioni). 
Si potrebbe parlare di come WhatsApp (acquistata da Facebook per 19 miliardi di dollari) abbia messo in campo una concorrenza spietata ai vecchi e nuovi colossi della telefonia  (solo per capirci: a fine agosto l’app contava su 600 milioni di utenti attivi al mese). Si potrebbe parlare di come Tripadvisor abbia rotto il monopolio delle vecchie guide turistiche imponendo un nuovo modello di condivisione sulle valutazioni degli utenti su hotel e ristoranti (chiedere per credere ai signori delle guide del Gambero Rosso, dell’Espresso, della Michelin). 
Si potrebbe raccontare (lo ha fatto ieri il Financial Times con una bella indagine di Tracy Alloway) di come in America siano le banche, e in particolare Wall Street, a dover fare i conti oggi con una forma evolutiva di peer to peer come quella dei prestiti non mediati dai vecchi istituti bancari (il fenomeno si chiama “P2P lenders”, le realtà leader nel settore si chiamano CurrencyFair’s MarketPlace, Zopa, RateSetter, Funding Circle, ThinCats, LendInvest, Assetz Capital, QuidCycle ed è un meccanismo che permette a un privato in cerca di soldi di richiederli ad alcune piattaforme che si occupano di raccogliere da altri privati denaro che viene acquistato con un tasso di interesse molto alto, intorno al 6 per cento; e nell’ultimo anno, scrive il Financial Times, più di 66 mila persone hanno prestato in America soldi attraverso queste piattaforme). 
Si potrebbe raccontare, ancora, di come la disintermediazione portata avanti da Amazon abbia rivoluzionato non solo l’universo della distribuzione dei libri ma anche il settore del commercio online (e se ieri la sfida era tra Amazon e eBay oggi evidentemente su questo campo la sfida non può che essere tra Amazon e Alibaba, 150 miliardi di capitalizzazione i primi, 165 miliardi di capitalizzazione i secondi).
Si potrebbe raccontare di casi ancora più creativi di disintermediazione come i siti creati in America per trovare una baby sitter con sistemi a metà tra il non sempre affidabile passaparola e il ricorso alle agenzie spesso troppo dispendiose (HomeJoy, Babysitters, Nannies, Child Care and Senior Home Care, StyleSeat). 
Si potrebbe raccontare, andiamo avanti, del caso più recente di Alibaba e di come la creatura di Jack Ma “con la sua capacità di gestire transazioni in entrata e in uscita dalla Cina abbia costretto il paese a entrare in un’età del commercio internazionale che ridimensiona il rivolo degli intermediari ed erode il potere dei governi di regolare gli scambi” (Businessweek, settembre 2014). 
Si potrebbe raccontare dell’esplosione delle applicazioni per gli smartphone che hanno contribuito a scavalcare una classica e moderna forma di intermediazione come le homepage dei siti internet (secondo l’US Mobile App Report di comScore, tra giugno 2013 e giugno 2014 il tempo dedicato dagli utenti alle Mobile App è incrementato del 52 per cento, anche se lo stesso rapporto fa notare che due utenti su tre non hanno scaricato neanche un’applicazione nel secondo trimestre 2014, segno che non c’è disintermediazione che possa pensare di capire di rendita). 
Si potrebbe raccontare ancora molto altro ma è evidente che il terreno moderno sul quale l’era della disintermediazione sta agendo in modo più efficace è quello legato al settore delle auto. Da un certo punto di vista la generazione io e te – generazione che va oltre le mediazioni, che chiede di non avere corpi intermedi, che chiede di avere un servizio diretto, personalizzato, veloce, rapido, no perditempo – è rappresentata anche da un’evoluzione naturale del car sharing come possono essere Car 2 go (gruppo Daimler) o Enjoy (gruppo Eni).
I due servizi – che permettono di spostarsi in città con delle auto prenotabili anche con un’applicazione e a un costo più basso del taxi, in Italia si trovano in undici città (totale di 200 mila iscritti, 3 mila auto disponibili al giorno, 100 mila utenti registrati, con stime per il 2012 di 12 milioni di utenti nel mondo per un totale di 6,2 miliardi di euro) – rappresentano un’alternativa sia all’uso dei taxi sia all’acquisto di una seconda macchina e hanno messo le case automobilistiche, e anche il mondo del trasporto pubblico, di fronte a un problema non da poco. 
E’ il solito ed elementare darwinismo economico: se non si offrono prezzi più bassi e servizi migliori gli utenti andranno ad utilizzare le auto offerte da chi offre prezzi più bassi e servizi migliori (e bruciare le macchine, come è successo a Roma negli ultimi giorni con diversi modelli di Car 2 go, non è certo un modo per risolvere il problema). Facile no?
Un terreno più noto sul quale l’era della disintermediazione ha mostrato i suoi frutti migliori è quello del trasporto pubblico, in particolare, ancora, sul lato dei taxi. Uber ha fatto impazzire i tassisti di mezzo mondo offrendo un servizio di trasporto privato attraverso un’applicazione che ha messo in collegamento passeggeri e autisti (a Milano, per capire di cosa stiamo parlando, alcuni tassisti hanno scelto di lasciare i loro taxi per passare a Uber – “Mi ero stufato, ho preso la licenza da Ncc e una Mercedes. In meno di 24 ore mi hanno affiliato. Ogni settimana ricevo i pagamenti. E per chi vuole lavorare di più ci sono anche premi extra", ha raccontato a Repubblica Milano Filippo, tassista di quarantanni).
I più fessacchiotti hanno portato avanti battaglie legali per liberarsi rapidamente di un’inaccettabile auto liberalizzazione del settore (e anche in Germania, dove i tassisti avevano ottenuto in un primo momento il blocco della App, il tribunale di Francoforte ha revocato la sentenza, seppure solo con motivazioni di carattere formale). I più realistici, per quanto possibile, hanno invece accettato la sfida e invece che provare a tagliare le ruote agli autisti di Uber hanno inventato dei metodi innovativi per fare concorrenza ai nuovi antagonisti.
A Singapore, la più importante cooperativa di Radio taxi ha sfidato Uber presentando una sua applicazione che ha avuto molto successo (si chiama GrabTaxi). A New York, invece, i tassisti non si sono ancora organizzati per evitare che Uber gli sottragga importanti fette di mercato ma hanno scoperto che l’azienda guidata da Travis Kalanick non ha fatto in tempo a minacciare le auto gialle della City che tra le strade di New York è comparso qualcuno pronto a offrire un servizio ancora più conveniente di quello di Uber (il servizio si chiama Lyft, e la società offre passaggi su auto riconoscibili per i baffi fucsia appesi sul cofano della macchina).
Nell’era Uber-Netflix, Renzi – così come molti outsider che negli ultimi anni sono riusciti a fare della disintermediazione, dell’essere in collegamento diretto con gli elettori senza mediazioni, senza filtri, senza corpi intermedi, in modo anche duro, selvaggio, rapace, quasi barbarico  – è certamente il più contemporaneo dei leader italiani. E’ il più vicino al modello Spotify, al modello Twitter, al modello Amazon, persino al modello Tripadvisor.
Ma come tutti i prodotti dell’era della disintermediazione, il contenitore costituisce una novità, in sé, per un tempo limitato. E se dentro al contenitore dimentichi di inserire buoni contenuti (chiedere per credere al signor Grillo Beppe), anche per il miglior governo peer to peer, anche per il miglior governo dell’io e te, può bastare un attimo per essere trascinato nella cartellina trash.