Alberto Pasolini Zanelli
Una delle parole
d’ordine che hanno preso a circolare non appena è apparso chiaro che il golpe
contro Erdogan era miseramente fallito è stata “sollievo”. L’hanno pronunciata,
con poche variazioni, un paio di primi ministri, riferendosi evidentemente alla
“geografia” politica della Turchia che vede da una parte un primo ministro che
controlla il Parlamento e la maggior parte delle altre strutture dello Stato,
inclusa – lo si è visto – la polizia, la maggioranza delle forze armate e il
potere islamico. A questa interpretazione “sicura” perché superficiale, si è
attenuto anche il presidente americano Obama, in base al principio che in una
democrazia chi è eletto ha sempre ragione. Peccato che fra Ankara e Istanbul le
cose vadano da tempo diversamente. Erdogan è stato eletto dal Parlamento in cui
il suo partito è riuscito a conservare la maggioranza pur perdendo molti voti
nelle ultime elezioni, espressione di una protesta contro il suo disegno di
trasformare la
Costituzione in senso presidenziale, cioè di acquisire un
potere totale. Il golpe miseramente fallito è stato motivato con la “difesa
della democrazia”, espressione che in Turchia ha plurimi significati e include
la difesa di quel che resta dello Stato laico. Le forze armate ne sono state il
presidio, in difesa dell’eredità di Ataturk che per lunghi decenni ha sospinto
il Paese verso modelli il più possibile simili a quelli europei. Fu uno dei
paradossi dei lunghi decenni di trattative fra Ankara e l’Europa.
I governi turchi ci
tenevano ad entrare, a venire fra noi con l’opposizione della tradizione
islamica che tentava invece di riportare il Paese a Est e indietro.
L’equilibrio era difeso dai militari, ma i governi europei si attaccarono a
questo per giustificare i propri ripetuti “no” alla Turchia. Si arrivò a porre
condizioni ultimative: la
Turchia sarebbe rimasta fuori dalla porta finché non avesse
abbattuto le barriere contro il ritorno di fiamma islamico. Questo disegno è
riuscito tramite il partito di Erdogan e le sue iniziative per “delaicizzare”
le forze armate; ma la Turchia
è rimasta fuori anche se le trattative con l’Europa continuano. Ma con l’Europa
di oggi ridotta alla gestione di un’economia in crisi e in ribasso mentre la Turchia in questo senso ha
progredito. Al tavolo noi dunque siamo diventati più deboli ed Erdogan più
forte. Ciò che è soprattutto evidente nel campo del controllo dell’immigrazione
dagli altri Paesi islamici, come ben sa soprattutto la signora Merkel. Uno
sviluppo che con ogni probabilità conoscerà un’ulteriore accelerazione in
conseguenza del fallimento del golpe. Il primo ministro assumerà anche
ufficialmente i poteri del presidente, l’opposizione in Parlamento ha già fatto
sapere che non lo ostacolerà più tanto, in nome della democrazia, le forze armate
escono tremendamente indebolite da una sconfitta di cui non conosciamo ancora
le trame, ma l’esito catastrofico.
Le strade attorno
all’aeroporto di Istanbul (intitolato ad Ataturk) erano diventate all’alba di
quella notte un deposito di uniformi e di armi abbandonate, di soldati sdraiati
per terra in segno di resa. Quelli vivi perché era cominciato il linciaggio dei
vinti, spesso condotto con la decapitazione, sinistro richiamo a certe
abitudini in comune con i tagliagola dell’Isis. Forse casi isolati, ma
contemporanei alla “partenza” ufficiale di una repressione che Erdogan ha
preannunciato usando il termine “vendetta” e che sta colpendo non solo il
personale delle forze armate ma anche il Parlamento e soprattutto il potere
giudiziario. Migliaia di giudici sono stati arrestati, inclusi i membri della
Corte Suprema. Non solo annunci che giustifichino l’uso del termine “sollievo”
per definire quello che sta accadendo in Turchia.
Un altro indizio è
che il tentativo di golpe è stato condotto quasi esclusivamente dall’aviazione,
che è l’arma delle forze armate turche più “integrata” nell’Alleanza Atlantica.
Un altro segnale: Erdogan ingiunge agli Stati Uniti di consegnargli il leader
dell’opposizione che da tempo si è rifugiato in America. Egli esibisce così la
propria forza che quella notte ha ingigantito. È facile immaginare un ulteriore
indebolimento o addirittura la cancellazione del ruolo di garanzia laica espletato
per più di mezzo secolo dalle forze armate. Questo in un momento in cui proprio
Erdogan sta conducendo trattative con alcuni suoi nemici esterni, dai curdi ad
alcune fazioni siriane, a Putin, cui egli pare disposto perfino a chiedere
scusa perfino per l’abbattimento di un aereo militare russo.
Adesso egli non può
non sentirsi più forte, soprattutto perché l’opposizione interna è tanto
indebolita. Molti fra noi hanno seguito in televisione i drammatici sviluppi
del golpe della notte. Personalmente ho potuto confrontarlo con l’ultimo,
condotto con successo dalle forze armate turche. Ero sul posto e ricordo grandi
vie e piazze vuote, presidiate da qualche carro armato. Non ci fu allora la
“reazione popolare” che l’“uomo forte” ha saputo confrontare questa volta. Uno
dei motivi è certamente che allora l’esercito (compatto) aveva dichiarato di
agire “contro il caos” e quasi tutti lo seguirono. Questa volta si voleva
colpire il Potere, l’“ordine” anche arbitrario. E i consensi sono stati tanto
più rari. Come del resto i segnali degli autori del golpe. Nel settembre 1980 parlò
alla televisione il generale Evren. Lo ascoltai senza capire una parola di
turco. Ma subito dopo dai teleschermi e dalle radio uscì la Quinta di Beethoven. Parlava
all’Europa. L’Europa capì.