Alberto Pasolini Zanelli
Quasi un corale di solisti di fama
l’ultima giornata di incoronazione di Hillary Clinton nella storica arena di Filadelfia.
La più applaudita Michelle Obama, il più caloroso coniuge Bill. Ma le cose più
importanti le ha dette un oratore più scarno e inatteso: Bernie Sanders. Non è
stato il più applaudito, ma ha raccolto infinitamente più consensi che nel suo
primo intervento che l’aveva visto quasi espulso dall’aula in un coro di
fischi. Che cosa è cambiato in poche ore? Una cosa importante: egli ha
confermato il suo appoggio alla scontata candidatura della Clinton, ma questa
volta ha raccontato quanto e come lei gliel’ha pagato. Con una serie di
concessioni, o almeno di promesse, imprevisto e imprevedibile durante la
campagna elettorale. Bernie ha elencato le concessioni di Hillary, tante e così
importanti da indurre più di un commentatore a dire che il vero vincitore è
stato lui.
L’elenco sarebbe lungo, ma contiene
un certo numero di cose solide. L’impegno a nominare, appena insediata alla
Casa Bianca, un giudice alla Corte Suprema che abolisca la sentenza di qualche
anno fa che toglieva ogni limite ai finanziamenti elettorali (la scelta che
rese possibile anni di dominio dei repubblicani e dei conservatori sia al
Senato sia alla Camera). Il ripristino della legge che imponeva una rigida
divisione di compiti fra le banche di deposito e quelle di investimento, un
pilastro di una riforma liberista. Una iniziativa per “smembrare” i colossi
finanziari di Wall Street che “possano rappresentare un rischio di sistema”. Un
chiaro riferimento agli istituti che causarono le vertigini e poi il crollo dei
mercati finanziari nel 2008; ad esempio della Goldman Sachs, con cui Hillary è
stata sempre in rapporti molto stretti, compensata con centinaia di migliaia di
dollari per ogni conferenza tenuta sotto quell’egida. Più la promessa di un
“atteggiamento più severo” nei confronti dei trattati di libero scambio, sul
modello del primo fra questi, il Nafta con cui il presidente Bill Clinton,
quello che creò il mercato unico fra Stati Uniti, Canada e Messico. Una specie
di palinodia della partecipazione democratica all’ondata delle riforme
neoliberiste.
Perché tutto questo? Perché
altrimenti quel vecchio gentiluomo di Sanders avrebbe mantenuto la promessa di
sostenere la candidatura Clinton, ma la maggior parte dei suoi elettori
probabilmente no: almeno quelli che sonoramente lo fischiarono quando egli li
invitò a stringersi attorno alla candidata. Questo perché quei delegati sono
tanti, attorno al 40 per cento, tutti eletti a suffragio popolare nelle
primarie, ancora più numerosi (il 45 per cento) degli elettori democratici che
dichiaravano che avrebbero preferito votare un qualsiasi altro candidato che
non si chiamasse Hillary Clinton. Lo avrebbero fatto, ma resuscitando una
definizione montanelliana: votare turandosi il naso. Chi sono questi “ribelli”?
Coloro che tradizionalmente sono il nocciolo duro dell’elettorato democratico:
lavoratori e ceto medio in genere, bianchi cioè al di fuori della “riserva” del
voto nero e “latino”. Gente che accetta perfino di essere definita
“socialista”, una parola così estranea al gergo politico americano da
assomigliare a un’ingiuria. Adorano Sanders, ma al punto di essere disposti a votare perfino per Donald
Trump, con un margine addirittura del 58 per cento contro il 30. E sono il 44
per cento di coloro che quattro anni fa votarono per Obama, quelli che l’hanno
riportato, forse provvisoriamente, in testa ai sondaggi in un momento in cui
egli era dato per “cotto”. “Populisti”, secondo un’etichetta oggi di moda anche
in Europa; ribelli a una serie di cambiamenti che minacciano, o hanno già
intaccato il loro ruolo modesto ma solido, che garantiva posti di lavoro ben
pagati e soprattutto sicuri, non insidiati come oggi dagli “immigrati” in carne
ed ossa, ma soprattutto tramite la concorrenza dei bassi prezzi all’estero,
dunque dalla globalizzazione, ma anche e sempre di più, dalla robotizzazione.
Fermare questa ondata è, ammoniscono gli economisti, difficile, anzi
impossibile. Lo si vede fra l’altro dalla drastica riduzione del ruolo dei
sindacati. Su tredici candidati alla Casa Bianca (nei due partiti) all’inizio
della stagione delle primarie, solo uno osava predicare il “no” al “mondo che
cambia”, Sanders. E tanti gli hanno creduto. Ora che lui è sparito come
candidato i suoi elettori provano la tentazione, loro “socialisti”, di votare
per un uomo di “estrema destra” come Trump che è capace di dire “no”.
Continuando a respingerli la Clinton rischiava davvero la sconfitta e allora ha
deciso di fare tutte quelle promesse, sorprendenti nella sua bocca di savia
pragmatista. E che non è detto verranno mantenute. Anche se formulate in buona
fede. Perché le leggi vengono votate dal Congresso e Camera e Senato
continueranno con ogni probabilità ad avere maggioranze repubblicane. A meno
che le “follie” di Trump non spaventino i tradizionali elettori del Gop,
riportando un rassegnato “buon senso”.
Pasolini.zanelli@gmail.com
______________________________________________
Non mi permetto di giudicare il voto del popolo americano, ma se io fossi cittadino USA voterei la Sig.ra Clinton.
Natale Peruzzi
_________________________________________
______________________________________________
Non mi permetto di giudicare il voto del popolo americano, ma se io fossi cittadino USA voterei la Sig.ra Clinton.
Natale Peruzzi
_________________________________________