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La Marsigliese stavolta risuona a lutto.



Alberto Pasolini Zanelli
A lungo i soccorritori, gli agenti di polizia, i bambini in preda al panico hanno continuato a disegnare lo slalom fra le vittime disseminate lungo la Promenade des Anglais, culla e simbolo del turismo sulla Costa Azzurra. L’aveva tracciato, poco prima, il solitario attentatore e autore di una delle più gravi stragi terroristiche degli ultimi anni in Europa e soprattutto in Francia. La gente scappava senza sapere esattamente da cosa: si sentivano grida e scoppi, questi ultimi dai festeggiamenti del 14 luglio, festa nazionale, scambiati da molti per gli spari degli attentatori; ma l’autore dell’atto criminale l’aveva pensato diversamente: gli bastava ampiamente il volante di un Tir da scagliare sulla folla di una striscia pedonale.
Un gesto senza precedenti anche nella sempre più ricca varietà del festival terroristico in corso in questi anni, sempre più spesso lontano dalle sue radici. Ancora oggi qualcuno se ascolta la notizia di una strage, pensa alla Siria, o all’Irak o ad altri indirizzi del Medio Oriente; ma oggi quella guerra si combatte in casa di tutti, preferibilmente nostra, europea. È una serie di coincidenze o una efferata strategia? Ambedue le ipotesi sono valide, ma da due indagini differenti. La prima parte dai vertici e constata che con sempre maggiore frequenza lo stato maggiore dell’Isis si assume la responsabilità (cioè la gloria) di qualsiasi atto di sangue nel mondo in cui almeno un musulmano sia autore e la vittima preferibilmente un “infedele”. Uno dei motivi può essere la brutta piega che per il Califfato, soci e concorrenti, hanno preso ultimamente le operazioni più strettamente militari. L’onda che minacciava di sommergere interamente l’Irak e la Siria si è arrestata e anzi indietreggia. Le vittime, i bersagli hanno imparato a difendersi e soprattutto a contrattaccare. Diverse roccheforti del terrore sono cadute, sono state liberate dalla più simbolica per noi, Palmira, ad altre locate, più strategicamente. Perfino la “capitale” dell’Isis è minacciata, sotto assedio e ciò ad onta della perdurante divisione rissosa tra i suoi nemici, che continuano a compiere gesti ostili l’uno nei confronti dell’altro, dimentichi di uno slogan attestato quale “il nemico del mio nemico è mio amico”. Resistono i curdi, che attraverso queste gesta militari contano di consolidare la propria antica rivendicazione di indipendenza e sovranità. Aiutano in vari modi gli americani e alcuni Paesi europei, pur disperdendo la propria opera nell’ostilità al regime di Damasco. Si meriterebbero riconoscimenti gli avversari musulmani del Jihad, gli sciiti appoggiati dall’Iran e soprattutto, fra le grandi potenze, la più “belligerante” che è oggi la Russia.
C’è un’altra statistica che si impone: mentre vede arretrare le proprie frontiere, il nemico di tutti riesce invece ad estendere il campo di battaglia attraverso i più nudi gesti di terrorismo. Il terreno preferito è sempre di più l’Europa, senza che a quest’ultima vengano avanzate accuse per le scelte strategiche. È molto più semplice e facile per i cospiratori rivendicare con orgoglio la responsabilità di tutti o quasi i bagni di sangue: purché le loro vittime siano europei e dunque cristiani. Non a caso gli strateghi del terrore rievocano le Crociate pretendendo di condurre una guerra di rivincita. Difficilmente essi si rifanno a veri paralleli storici. È più semplice colpire a casaccio. Non solo, ma così gli strateghi del terrore si risparmiano sempre di più gli sforzi e i costi insiti in ogni strategia. Qualunque autore di gesto terroristico viene automaticamente arruolato a posteriori (soprattutto se autore di gesta suicide e dunque non può avanzare distinzioni nelle file del Califfato e dei suoi fondatori. La sconfitta in una battaglia è compensata da una strage di innocenti. Soprattutto se accade in una giornata laicamente sacra per la storia di uno dei nostri Paesi. La Marsigliese stavolta risuona a lutto.