Alberto Pasolini Zanelli
La Convenzione nazionale del
Partito repubblicano non ha dato né all’America né al mondo quello che di
solito ci si attende da occasioni cerimoniali del genere. Non ce ne si aspetta
molto, ma tuttavia due cose: un “affratellamento” fra i vari aspiranti alla
Casa Bianca che si sono bistrattati e a volte “accoltellati” durante la lunga
stagione delle primarie e una chiarificazione del programma del vincitore, in
termini più moderati e insieme più precisi, rivolti soprattutto al cosiddetto
elettorato di centro. Il conclave di Cleveland non ci ha dato nulla di tutto
questo, né era il caso di aspettarselo. La “riconciliazione” non c’è stata e
non ci poteva essere. Gli esponenti più o meno storici del Partito repubblicano
hanno disertato del tutto l’appuntamento (così hanno fatto gli ex candidati
alla Casa Bianca da Romney alla dinastia Bush, più McCain, che si è scusato
dicendo che in quei giorni era impegnato a fare una passeggiata sul fondo del
Gran Canyon). Fra i contendenti alcuni sono saliti sul carro del vincitore, i
più hanno preferito farsi dimenticare. L’eccezione è stato il rivale più
vigoroso, il senatore Cruz (il cubano trasmigrato nel Texas) che ha affrontato
la platea, ha cercato di moderare i termini, ma non è riuscito a tirare fuori
un appoggio a Trump e quindi è stato voluminosamente fischiato. Quanto a Trump
egli non ha sentito il bisogno di cambiare tono: ha semplicemente ripetuto se
stesso, nella sostanza e nelle frasi, nei modi, nell’impeto, nelle gaffe, nelle
volgarità ma anche nelle intuizioni. Non si è sforzato, a quanto pare, di
rabbonire gli avversari o placare gli inquieti. Ha semplicemente parlato a
un’assemblea come se fosse una piazza. E Cleveland, la città che ha ospitato la
Convenzione, era ed è una piazza a lui dolorosamente amica.
È quasi l’immagine di quello che
l’America potrebbe diventare, secondo Trump e secondo i molti inquieti. È
un’antica città industriale, dunque piena di operai, ma è anche la città in cui
i posti di lavoro svaniscono rapidamente in conseguenza della concorrenza
dall’estero, della globalizzazione, dei trattati di “libero commercio” firmati
da Obama ma anche dai suoi predecessori repubblicani. Tutto, anche la politica
estera, è visto da qui in funzione delle ripercussioni sui mercati interni.
L’America in questi anni è cambiata, come il resto del mondo, ma più in fretta
e le conseguenze negative sono più evidenti. È vero che la disoccupazione, dopo
la crisi, è ridiscesa al 4,9 per cento, un livello rispettabilissimo e
addirittura di sogno per alcuni Paesi europei, a cominciare dall’Italia. Però
contemporaneamente sono diminuiti i salari, gli stipendi e in genere i redditi
del ceto medio. Oggi secondo alcuni calcoli i pensionati hanno un futuro di
ristrettezze: dovrebbero vivere in media con 23 mila dollari l’anno;
conseguenza della privatizzazione del sistema pensionistico. Perdita dunque del
potere d’acquisto, soprattutto delle classi la cui crescita è stata l’orgoglio
dell’America nel mondo. Oggi dimenticato, un annuncio da Detroit degli anni
Cinquanta contribuì enormemente a rilanciare il “capitalismo” nel mondo e a
indebolire l’appello della “concorrenza” comunista: quel giorno in cui i
compensi dei lavoratori della Ford consentirono per la prima volta agli operai
di comprarsi l’automobile. Oggi si verifica il contrario: per la prima volta
nella storia americana i figli del ceto medio devono attendersi un reddito
medio inferiore a quello dei padri. Un dato che riguarda soprattutto gli
uomini, particolarmente numerosi nei campi dove più in fretta si estendono le
conseguenze del libero scambio, la globalizzazione, l’automazione. Per il primo
Trump ha, o afferma di avere, una ricetta. Anzi la urla: richiudere le
frontiere all’importazione (e dunque affrontare soprattutto la Cina). Egli lo
propone, lo grida, conquista un certo settore dell’opinione pubblica
tradizionalmente orientata verso il Partito democratico e richiamata in vita
anche dall’audace campagna di Bernie Sanders contro l’establishment democratico
incarnato da Hillary Clinton ma al contempo Trump ha allarmato settori
importanti del suo partito e anche fra gli economisti, perfino di sinistra che
ritengono le sue proposte “sconsiderate”. Fra le considerazioni critiche c’è
anche il pronostico, o la constatazione, che anche se delle fabbriche
torneranno in America per un cambio di politica commerciale, saranno quelle che
offrono “posti di lavoro” ai robot. Trump combina questo allarme con un
caloroso appello patriottico, rilanciando la formula reaganiana “make America
Great Again”, rifare grande l’America. Però nel richiamarsi a un modello di
presidente americano egli sembra avere scelto, almeno per la platea di
Cleveland, Richard Nixon, fra i più impopolari nel Paese, a ragione o a torto.
Perché anche Nixon dovette affrontare anni duri e difficili.