Alberto Pasolini Zanelli
La stagione delle Convention è
stata breve ma intensa, contrassegnata soprattutto da un massiccio intervento
degli uni in quella che doveva essere una cosa degli altri. I repubblicani da
Cleveland hanno dedicato i due terzi del loro tempo a parlare e sparlare dei
democratici; che hanno risposto da Filadelfia dedicando ai repubblicani quasi
interamente il tempo riservato a un vero discorso politico, cercando di
presentarsi come eredi, oltre che della propria antica tradizione, anche di
posizioni del partito concorrente. Hanno chiuso le loro assise come le avevano
aperte: sparando a raffica su Donald Trump e ricoprendo di elogi affettuosi
Hillary Clinton. In questo hanno stravinto: nessun oratore favorevole a Trump è
riuscito, anzi neppure ha tentato di addolcire la sua figura con dello sciroppo
familiare. Sarebbe stato difficile competere con Hillary che ha definito se
stessa “figlia di una madre e madre di una figlia” nel tentativo di far venire
i lucciconi a elettrici non giovanissime.
Ma gli antagonismi non sono
riusciti a mettere del tutto nel cassetto i programmi, le promesse, le intenzioni.
Nei primi due Hillary si è dimostrata più accorta, generosa, strategicamente
astuta. Ha fatto sue gran parte delle proposte “socialiste” del suo ex rivale
Sanders, compresa l’abolizione della pena di morte: promessa che, visto l’umore
degli americani, non potrà mantenere mai.
Il contrasto più forte, sonoro,
impellente che è emerso dalle due Convenzioni è quello sulla politica estera.
Non è solo fra i due modi di porgere anche se tali possono essere state le
prime impressioni degli ascoltatori, destinatari delle “sparate” di Trump,
tutte intuizione e scarso controllo dei dati, costruite meno sulle soluzioni
proposte che sulla ossessiva ripetizione della parola “Io”, sia nella voce, sia
nella ricaduta nello scritto; in confronto alla puntualità puntigliosa della
Clinton, al suo linguaggio in apparenza perfino diplomatico ma punteggiato
anche di petulanti sorrisi. Dal confronto è uscita netta la contrapposizione;
fra un dilettante a volte roboante e molto sicuro dei propri istinti, immerso
nel presente senza mediazioni e una professionista carica di esperienza e di
dettagliata conoscenza di come va il mondo. Quello di ieri. Se mai vi fosse fra
le due concezioni una improbabile ipotesi di mediazione essa non verrebbe mai
in questo campo. Donald legge i giornali, ascolta le notizie, condivide le
pulsazioni del cittadino americano medio, Hillary legge i memoriali e
soprattutto, a quanto pare, rilegge quello che ha scritto quando era, in varie
vesti, nelle stanze del potere, da moglie del presidente, a senatore di New
York, a ministro degli Esteri. Le sue proposte sono coerenti, addirittura
immutabili, come se questo secolo riproponesse pari pari problemi e soluzioni
del secolo scorso. Ad ascoltare Hillary Clinton pare che la Guerra Fredda non
sia mai finita, che l’Estremo Oriente sia una terra lontana e semiesplorata;
che a Mosca ci sia ancora al potere il comunismo, che il Muro di Berlino non
sia mai caduto e che nel mondo arabo islamico non sia mai scoppiata la rivoluzione
le cui gesta ci aggrediscono ogni volta che gettiamo uno sguardo su un giornale
o su uno schermo televisivo. La candidata democratica alla presidenza 2017 non
ha mai pronunciato, nel suo discorso programmatico, le parole che definiscono
l’Isis. L’impressione è addirittura che lei ne prescinda e non è esatto. Più
probabile è che non sia disposta a rinunciare a problemi e soluzioni che la
affascinavano e potevano essere attuali prima che il mondo cambiasse. Hillary
candidata non se la sente di mettere nel cassetto la sua passione per la
Primavera Araba, inclusa perfino la Siria.
In Europa versione Hillary Clinton
il problema centrale, il pericolo urgente è ancora l’Unione Sovietica, che avrebbe
cambiato soltanto nome e un Putin che se non è un erede di Stalin poco ci
manca, mentre invece è un nazionalista russo di pochi scrupoli. Che si è
ripreso con le brutte la Crimea (che è più russa che ucraina) e pare abbia
perfino “rubato” le carte segrete del Partito democratico. Ma che è anche in
prima fila nella resistenza al jihadismo islamico e preferisce Assad all’Isis,
anche perché ha più musulmani in casa la Russia di qualsiasi altro Paese
europeo. Con un’Amministrazione Clinton le tensioni fra Washington e Mosca
dovrebbero dunque acuirsi, a vantaggio, in un certo senso, della Nato, che è
stata l’Alleanza di massimo successo nella storia del mondo impostata come era
nell’affrontare l’impero comunista dell’Est, dalla Grecia a Berlino e che da
più di vent’anni “soffre” dell’eclissi del suo Nemico ed è alla ricerca di un
nuovo ruolo che potrebbe essere anche più esteso e planetario ma comunque
diverso. Hillary, simile in questo all’establishment repubblicano, sventola la
bandiera dell’Alleanza atlantica, le riconosce un primato planetario, non
condivide la visione di Obama di un futuro che si decida fra l’Asia e il
Pacifico. Ha idee chiare, tenaci. Il futuro dirà se giuste o troppo chiuse.