Intervista di Andrea Bonanni su La Repubblica a Romano Prodi
BRUXELLES. «Ci sono due grandi lezioni che arrivano dalla vittoria di
Macron: una riguarda l’Europa e l’altra il funzionamento della
democrazia». Romano Prodi osserva con ovvia soddisfazione il risultato
del voto francese. Ma anche con la consapevolezza che il nuovo corso che
si annuncia per l’Europa rappresenta una sfida di civiltà a livello planetario.
Perchè, spiega, «la tentazione dell’autoritarismo sta dilagando in
tutto il mondo. E l’Europa è rimasta sola a portare avanti i valori
della democrazia nell’alveo della globalizzazione come, nel secolo
scorso, è stata lasola a realizzare l’ideale di uno stato sociale».
Presidente, dove andrà l’Europa con Macron?
«La sua vittoria segna un’inversione di tendenza che ha portata storica. Quando i cittadini sono messi di fronte alla scelta secca tra Europa e non Europa, quando devono decidere quale sarà il futuro dei loro figli, prevale l’istinto di sopravvivenza e la scelta dell’Europa diventa maggioritaria. Era già successo in Austria e in Olanda. Ora in Francia questa logica si consolida».
Macron ha parlato di “destino comune” degli europei…
«È una frase alta, che sublima un concetto semplice: da soli, nei nostri staterelli, siamo schiacciati e non possiamo affrontare la sfida di un mondo globale. Oggi l’Europa è stretta tra Putin e Trump. E questo ci fa ritrovare il senso dello stare insieme»
Ma è fondato l’eurottimismo del presidente francese?
«Bisognerebbe piuttosto domandarsi quanto sia fondato un certo europessimismo di maniera, che spesso è il paravento dietro cui si maschera il nazional-populismo. Il problema è come si possa superare questo atteggiamento così diffuso, specialmente in Italia»
E come?
«Negli ultimi anni il concetto di democrazia si è trasformato. L’accento non è più tanto sui diritti o sulla rappresentanza, quanto piuttosto sulla “delivery”, sui risultati. Credo che l’arrivo di Macron, insieme con l’affermazione dell’Europa a due velocità, permetterà finalmente di prendere decisioni in grado di fornire risultati concreti».
Quali?
«Il primo risultato è che finiranno, spero, i vertici europei a senso unico, in cui la Merkel dava la linea dottrinaria e gli altri capi di governo facevano le conferenze stampa. Il motore franco-tedesco ricomincerà a funzionare con due pistoni, come è bene che sia. E, grazie alle due velocità e alle cooperazioni rafforzate, potrà coagulare il consenso di altri grandi Paesi, come l’Italia e la Spagna, ripristinando la dialettica che ha fatto avanzare l’Europa. In concreto, mi sembra che il settore più pronto sia quello della Difesa. La Francia, che dopo l’uscita degli inglesi è rimasta l’unico Paese europeo con un deterrente nucleare e con il diritto di veto all’Onu, deve mettere a punto con la Germania, con l’Italia e con la Spagna un disegno di esercito europeo. È un progetto realistico che potrebbe aumentare molto le nostre capacità di difesa senza aumentare le spese. Ma ci sono altri settori come la ricerca comune sulle grandi infrastrutture o il lancio di programmi sociali a livello europeo, a cominciare dall’ edilizia popolare».
Macron è stato dipinto come il campione della globalizzazione. Ma in realtà propone un protezionismo europeo…
«La parola protezionismo è inadatta. Non l’ho mai sentito parlare di muri o di barriere. Macron è un liberista alla francese: libera economia ma diretta da uno stato efficiente, un’idea che lui estende a tutta l’Europa. Trovo giusto difendere l’interesse europeo, piuttosto che quello meramente nazionale. La Ue deve restare aperta, ma deve anche pretendere una simmetrica apertura dagli altri partner, soprattutto dalla Cina, cosa che non sempre c’è stata».
Le presidenziali francesi hanno anche segnato la scomparsa dei partiti tradizionali: è un fenomeno che vale anche per il resto d’Europa?
«Con l’unica eccezione della Germania, direi di sì. Il mondo è cambiato. La politica è cambiata. La dialettica, oggi, non è più tra destra e sinistra, ma tra apertura e chiusura verso il mondo globale. Come si è visto bene in Francia, lo scontro non è più tra proletariato e borghesia, ma tra ceti urbani acculturati e periferie subculturali. I vecchi partiti, diventati macchine elettorali senza più una funzione sociale, non riescono a comprendere e a rappresentare le nuove contraddizioni della società».
Ma, a lungo andare, la democrazia può sopravvivere alla fine dei partiti politici?
«Questa è la grande questione a cui dobbiamo trovare una risposta. Dopo la sconfitta del comunismo sembrava che il mondo stesse aprendosi alla democrazia. Invece constato che ovunque sta crescendo la domanda di autoritarismo da parte dei cittadini: in Cina, in India, nelle Filippine, in Russia, in Turchia, in Egitto e ora anche negli Stati Uniti. La gente sembra amare i regimi forti e ci sono tentazioni perfino in Europa. Per fortuna, come insegna Macron, da noi alla fine prevale la scelta europea e dunque democratica ».
Rischiamo di restare da soli…
«In parte è vero. Ma non mi spaventerei. Nel secolo scorso, il secolo delle tragedie e delle guerre, l’Europa è stata l’unica a perseguire e a mettere in pratica l’utopia del welfare state, l’idea lungimirante dello stato sociale. Oggi dobbiamo portare avanti la battaglia per i valori democratici, inserendoli nell’alveo di una globalizzazione governata. La vittoria di Macron ci dice che si può fare».
Presidente, dove andrà l’Europa con Macron?
«La sua vittoria segna un’inversione di tendenza che ha portata storica. Quando i cittadini sono messi di fronte alla scelta secca tra Europa e non Europa, quando devono decidere quale sarà il futuro dei loro figli, prevale l’istinto di sopravvivenza e la scelta dell’Europa diventa maggioritaria. Era già successo in Austria e in Olanda. Ora in Francia questa logica si consolida».
Macron ha parlato di “destino comune” degli europei…
«È una frase alta, che sublima un concetto semplice: da soli, nei nostri staterelli, siamo schiacciati e non possiamo affrontare la sfida di un mondo globale. Oggi l’Europa è stretta tra Putin e Trump. E questo ci fa ritrovare il senso dello stare insieme»
Ma è fondato l’eurottimismo del presidente francese?
«Bisognerebbe piuttosto domandarsi quanto sia fondato un certo europessimismo di maniera, che spesso è il paravento dietro cui si maschera il nazional-populismo. Il problema è come si possa superare questo atteggiamento così diffuso, specialmente in Italia»
E come?
«Negli ultimi anni il concetto di democrazia si è trasformato. L’accento non è più tanto sui diritti o sulla rappresentanza, quanto piuttosto sulla “delivery”, sui risultati. Credo che l’arrivo di Macron, insieme con l’affermazione dell’Europa a due velocità, permetterà finalmente di prendere decisioni in grado di fornire risultati concreti».
Quali?
«Il primo risultato è che finiranno, spero, i vertici europei a senso unico, in cui la Merkel dava la linea dottrinaria e gli altri capi di governo facevano le conferenze stampa. Il motore franco-tedesco ricomincerà a funzionare con due pistoni, come è bene che sia. E, grazie alle due velocità e alle cooperazioni rafforzate, potrà coagulare il consenso di altri grandi Paesi, come l’Italia e la Spagna, ripristinando la dialettica che ha fatto avanzare l’Europa. In concreto, mi sembra che il settore più pronto sia quello della Difesa. La Francia, che dopo l’uscita degli inglesi è rimasta l’unico Paese europeo con un deterrente nucleare e con il diritto di veto all’Onu, deve mettere a punto con la Germania, con l’Italia e con la Spagna un disegno di esercito europeo. È un progetto realistico che potrebbe aumentare molto le nostre capacità di difesa senza aumentare le spese. Ma ci sono altri settori come la ricerca comune sulle grandi infrastrutture o il lancio di programmi sociali a livello europeo, a cominciare dall’ edilizia popolare».
Macron è stato dipinto come il campione della globalizzazione. Ma in realtà propone un protezionismo europeo…
«La parola protezionismo è inadatta. Non l’ho mai sentito parlare di muri o di barriere. Macron è un liberista alla francese: libera economia ma diretta da uno stato efficiente, un’idea che lui estende a tutta l’Europa. Trovo giusto difendere l’interesse europeo, piuttosto che quello meramente nazionale. La Ue deve restare aperta, ma deve anche pretendere una simmetrica apertura dagli altri partner, soprattutto dalla Cina, cosa che non sempre c’è stata».
Le presidenziali francesi hanno anche segnato la scomparsa dei partiti tradizionali: è un fenomeno che vale anche per il resto d’Europa?
«Con l’unica eccezione della Germania, direi di sì. Il mondo è cambiato. La politica è cambiata. La dialettica, oggi, non è più tra destra e sinistra, ma tra apertura e chiusura verso il mondo globale. Come si è visto bene in Francia, lo scontro non è più tra proletariato e borghesia, ma tra ceti urbani acculturati e periferie subculturali. I vecchi partiti, diventati macchine elettorali senza più una funzione sociale, non riescono a comprendere e a rappresentare le nuove contraddizioni della società».
Ma, a lungo andare, la democrazia può sopravvivere alla fine dei partiti politici?
«Questa è la grande questione a cui dobbiamo trovare una risposta. Dopo la sconfitta del comunismo sembrava che il mondo stesse aprendosi alla democrazia. Invece constato che ovunque sta crescendo la domanda di autoritarismo da parte dei cittadini: in Cina, in India, nelle Filippine, in Russia, in Turchia, in Egitto e ora anche negli Stati Uniti. La gente sembra amare i regimi forti e ci sono tentazioni perfino in Europa. Per fortuna, come insegna Macron, da noi alla fine prevale la scelta europea e dunque democratica ».
Rischiamo di restare da soli…
«In parte è vero. Ma non mi spaventerei. Nel secolo scorso, il secolo delle tragedie e delle guerre, l’Europa è stata l’unica a perseguire e a mettere in pratica l’utopia del welfare state, l’idea lungimirante dello stato sociale. Oggi dobbiamo portare avanti la battaglia per i valori democratici, inserendoli nell’alveo di una globalizzazione governata. La vittoria di Macron ci dice che si può fare».