Alberto Pasolini Zanelli
È tutto fuori che una novità: il
Brasile scivola di nuovo verso la dittatura militare. I soldati non sono ancora
usciti dalle caserme, ma le piazze sono già piene di gente che li invoca. Gli
slogan più frequenti e più “robusti” sono quelli dei nostalgici del tempo delle
uniformi e delle prigioni. La dittatura era durata a lungo. Aveva reinventato
l’“ordine” dei fucili e dei carri armati. Aveva chiuso le piazze in cui si
esprimeva un malcontento soprattutto economico. Il più grande Paese del Sud
America era da tempo anche il più povero. Ma le armi lo tenevano in qualche
modo in piedi, a un grave prezzo umano. Un certo ceto ringraziò i dittatori. Lo
slogan più frequente diventò “Grazie a voi il Brasile non è diventato Cuba”.
Durò molto, ma non eternamente. A
rovesciarla fu un uomo inatteso, un operaio che non sapeva soltanto scioperare
ma ricostituire una economia. Si chiamava e si chiama Luiz Inacio Lula. Se i
rapporti di forze e l’atmosfera politica fossero come in tempi normali, egli
sarebbe rieletto al prossimo turno. I sondaggi gli danno il 37 per cento dei
voti, contro il 18 per cento di un sostenitore dei militari. Ma non è detto che
Lula potrà presentarsi come candidato: è sotto accusa di avere acquistato una
casetta al mare a un prezzo fortemente inferiore a quello del mercato. Il
processo tira avanti, i presidenti si susseguono. L’erede di Lula era una donna,
figlia di un immigrato politico europeo di tipo alquanto originale: uno che
scappò dalla Bulgaria per sfuggire non dal totalitarismo comunista del
dopoguerra ma poco prima che esso venisse imposto dalle baionette sovietiche.
Arrivato in Brasile si adattò ben presto, sposò una brasiliana e generò una
figlia dalle forti e originali ambizioni. Il suo nome è Dilma Rousseff. Fin da
ragazza si impegnò nella lotta clandestina nella giungla e nelle metropoli.
Partecipò fra l’altro al sacco di una banca per raccogliere soldi per la
guerriglia. Non immaginava, né lei né nessuno, che sarebbe diventata ministro
delle Finanze quando Lula fece il governo e gli sarebbe succeduta come
presidente. Non fu mai un personaggio mitico come lui, ma pareva avere imparato
il mestiere. Era vero fin al momento in cui sul Brasile non si abbatté una
recessione numero due, che lo investe da anni e sta distruggendo tutte le buone
cose che il governo democratico aveva fatto.
Di qui la reazione del ceto medio,
culminata in un “processo” in Parlamento contro Dilma e la sua defenestrazione.
Le succedette Michel Temer, un suo ex collaboratore passato all’opposizione e
veemente nelle accuse di corruzione di lei. Finché non si scoprì che anche lui si
era comportato allo stesso modo. E con lui gran parte della classe politica.
Almeno cento parlamentari sono stati coinvolti e scoperti, fra cui l’attuale
capo dello Stato. Da qui una nuova esplosione di rabbia e il riemergere del
desiderio di un ritorno ai tempi delle uniformi e della repressione. La
nostalgia che oggi invade cento piazze, soprattutto dopo la decisione, forse
durevole o forse no, di convocare nuove elezioni. Il problema è che secondo i
sondaggi ne uscirebbe vincitore proprio il vecchio Lula, su cui pende l’esclusione
per lo scandaletto della casetta al mare. Mentre le metropoli brasiliane, a
cominciare da Rio, ribollono nuovamente di povertà, caos e ira.
Alla dittatura incombente comincia,
però, a contrapporsi un’altra delle passioni delle masse: il timore di tornare al
“pugno di ferro” e alla moltiplicazione delle vittime. Un caso che ha già
suscitato allarme e rivolta è quello di una figura che esprimeva tutte le angosce
e le rabbie dei settori più vulnerabili del popolo brasiliano: si chiamava
Marielle Franco, una donna di sinistra, femminista, nera e bisessuale,
attivista per i diritti umani. E c’è già, naturalmente, chi grida vendetta.