Alberto
Pasolini Zanelli
Se a contare
fossero solo le prossimità di calendario, il voto più prossimo a quello di
domani in Russia sarebbe stato quello italiano di una manciata di giorni fa. Ma
la somiglianza si ferma ovviamente qui: un paragone fra le due chiamate alle
urne è anzi il più strettamente dissimile. Roma ha votato e non sa ancora chi
abbia vinto, Mosca deve ancora darsi l’appuntamento alle urne ma sa già chi
vincerà. Di Putin ce n’è uno solo, sia per le peculiarità positive, sia per
quelle negative agli occhi e alle orecchie dell’Occidente. Come conseguenza la
“indifferenza” degli italiani ci fa estranei a un procedimento che per i russi
dovrebbe o almeno potrebbe essere tuttora un esercizio nuovo ed estraneo.
Quello che tutti si aspettano è che Vladimir Putin sostenga con relativa
facilità e felicità un esame non destinato a restare nella Storia, come invece
lo sono stati i successi di Gorbaciov e anche di Eltsin in un’epoca in cui ci
si andava, da Leningrado a Stalingrado, senza interrogativi ma con
l’equivalente totalitario di un avvenimento sconosciuto nei regimi totalitari.
Adesso, anzi da tempo, Stalingrado ha riacquistato un nome innocente e
geografico come Volgograd e Leningrado è ridiventata Sanpietroburgo per volontà
popolare guidata da un vicesindaco che l’aveva servita da ufficiale del Kgb che
si chiamava Putin. Che anche stavolta sarà remunerato non solo da dei russi
democratici e idealisti, ma da concittadini che riconoscono che con lui si vive
più tranquilli, che l’economia lentamente si riprende, che è passato un
ventennio senza Guerra Fredda e che le persecuzioni sovietiche contro il clero
ortodosso hanno lasciato il posto non solo a una “resurrezione” ma a un regime
che molti vedono come nazionalclericale. Anche per questo Putin ha condotto una
campagna elettorale molto rilassata, almeno per quanto riguarda i suoi
connazionali, che gli riconoscono diversi difetti, ma si sentono rassicurati su
altri temi, come la ripresa dell’economia e il recupero dell’orgoglio nazionale
che per i più compensa le umiliazioni di una Guerra Fredda indiscutibilmente
perduta.
Quelli che sono
inquieti sono i suoi vincitori, guidati non più dall’America gloriosa e felice
e sicura di sé di Ronald Reagan e dei suoi immediati successori. Adesso gli Usa
sono nervosi, comprensibilmente perché coinvolti in un mondo che
progressivamente si è riavvicinato a tempi inquieti, tornati a sentirsi
inquieti e tentati a causa della Russia e dell’attuale inquilino del Cremlino,
che non doveva e non poteva spacciarsi da vincitori del secondo conflitto
mondiale. Né loro, né il loro leader, che ritiene opportuno reinscenare
occasioni ed emblemi di vittorie. La bandiera dell’esercito russo è ancora
rossa disegnata dalla falce e dal martello che fu piantata vittoriosa nel 1945
sulle rovine di Berlino, ma la Marina ha il vessillo disegnato da Pietro il
Grande a imitazione di quello dell’Olanda e sulla bandiera del presidente del
Cremlino sventola l’emblema zarista.
Il resto del mondo
non è altrettanto tranquillizzato, soprattutto la Superpotenza che ha saputo
vincere la guerra e la pace ma che ha scelto in più occasioni il proprio
orgoglio e la sua fedeltà all’ideale della democrazia. Di conseguenza sono
riemerse, sia pure su scala ridotta, le ostilità di quei tempi, quelli
contrassegnati fra l’altro dal Muro di Berlino. Oggi Trump continua finora le
rivalità in Crimea e in Ucraina, ma anche e soprattutto nel Medio Oriente e
particolarmente in Siria, regioni lontane del mondo in cui Washington e Mosca
sostengono anche con le armi fazioni rivali dell’Islam, giungendo a sfiorare,
soprattutto a parole, l’immedesimazione con i sunniti o gli sciiti, la Turchia
con i curdi, i palestinesi o gli israeliti. Navi da guerra e aerei si
avvicinano ogni tanto per esibire gli opposti vessilli. L’uomo della Casa
Bianca, inoltre, continua ad avere dei problemi “domestici”: ha appena
licenziato il suo ministro degli Esteri Tillerson e pare si appresti a fare
presto lo stesso con il vice capo dell’Fbi.
Ma i segni di
rinnovata rivalità emergono soprattutto a parole e a gesti, qualche volta in
contrapposti segnali e vessilli, il più originale e complesso nelle asserite
interferenze di Mosca nella campagna presidenziale americana, con Putin accusato di avere “militato” nella campagna elettorale di Trump, ma insieme di
sfidare il nuovo inquilino della Casa Bianca, obbligandolo qualche volta a
reagire con parole e gesti. L’ultimo scambio di malumori pare oggi con il ruolo
degli Stati Uniti in parte affidato alla Gran Bretagna, ma anche espresso in
gesti e segni espliciti: l’Economist
è ritornato a mettere in copertina una piovra con i lineamenti e il nome di
Vladimir Putin. A sfidare lo “zar” è stavolta una donna che non assomiglia né a
Churchill né alla Thatcher e che è già impegnata in una rissa tutta occidentale
con la burocrazia europeista.