Alberto Pasolini Zanelli
I tempi e i modi con cui i mass
media americani hanno dato notizia e fornito commenti al risultato delle
elezioni presidenziali in Russia è in molti casi sorprendente ma significativo.
Basta citare il New York Times che la
notizia da Mosca ha addirittura escluso dalla prima pagina, cedendo spazio a
notizie di politica interna, vale a dire all’ennesima raffica di licenziamenti
alla Casa Bianca. La Washington Post
ha fatto più o meno lo stesso, concedendo larghi spazi a eventi internazionali
ma lontani sia da Washington, sia da Mosca. Perfino in campo televisivo è
convenuto una volta tanto seguire la rete televisiva russa che opera
dall’America. Sono occasioni bizzarre, eccezioni di cui ci si dimenticherà,
giustamente, in poche ore, ma che danno il sapore di questa giornata e dei suoi
contenuti tutt’altro che secondari e che è bene riassumere e riordinare.
Il voto per il Cremlino era
ovviamente importante, soprattutto in questi giorni in cui paiono moltiplicarsi
i motivi di tensione fra la Superpotenza e una grande potenza che dà segni di
voler risorgere. Le urne russe non hanno fornito sorprese. Si sapeva da tempo
che Vladimir Putin sarebbe stato rieletto e supereletto. Le incognite e la
tensione, riguardavano unicamente la misura del suo voto, che ha corrisposto
pienamente a previsioni precise, accurate, da record. Ci si chiedeva se il
“nuovo zar” avrebbe ripetuto l’exploit di sei anni fa e ci è riuscito con una
precisione per qualcuno irritante e magari anche sospetta: il 76,6 per cento
rispetto al 75 dell’ultimo test. Le speranze sulle opposizioni “liberali” non
si sono verificate. Basti dire che al secondo posto si è collocato come sempre
il Partito comunista, decrescendo ulteriormente al livello del 13 per cento. Lo
prevedevano tutti, incluso Putin, che ha passato alcune ore della giornata
elettorale passeggiando per Mosca e salutando la gente con chiacchiere minute.
È stata la sua quarta vittoria e quando gli hanno chiesto se prevedeva di
candidarsi ancora fra sei anni (il che richiederebbe una modifica alla
Costituzione) ha detto che c’è tanto tempo per pensarci. Che è mezza promessa
ai suoi elettori e mezza assicurazione ai più nervosi fra gli stranieri.
Che naturalmente stanno in America
e non sono solamente quelli che si auguravano un qualche calo dei consensi a
Putin, giungendo qualcuno a prevederlo nella misura addirittura di 10 o 15 per
cento. Altri, i più, non contavano le schede, concentrati com’erano nella
misura in cui dalle urne sarebbero usciti ulteriori punti di tensione mondiale.
L’ultimo era stato messo sul piatto con addirittura un eccesso di puntualità: a
due giorni dal voto, la Gran Bretagna ha espulso 23 diplomatici russi come
rappresaglia per l’uccisione in Inghilterra di una ex spia russa. Il giorno
dopo la Russia ne ha spedito via un egual numero di funzionari di Londra. Cose
che succedono abbastanza spesso da anni nella capitale britannica, che per
l’afflusso di cittadini russi è da tempo soprannominata Londonstan. Nel frattempo
gli Stati Uniti si sono sentiti obbligati a fare lo stesso mentre Francia e
Germania si sono limitate a proteste verbali.
Trump si è limitato a fare questo
suo “dovere”, dedicandogli pochi minuti del suo tempo, riempito fino all’orlo
da una sua “epurazione” interna, così intensa ed affrettata da concedergli
distrazioni. Solo negli ultimi giorni, ore, minuti l’elenco dei licenziamenti è
arrivato a “ricoprire” l’intera struttura della sua Amministrazione. Sono stati
mandati a casa nelle ultime ore il ministro degli Esteri, i capi della Cia, burocrati
minori ma nominativi seguiti con attenzione in tutto il mondo. I motivi sono
diversi, soprattutto quelli radicati nei rapporti personali del presidente
americano con importanti personaggi dei “vertici” russi e in tutto sullo sfondo
di uno “scandalo” emerso come tale durante una campagna elettorale
presidenziale: non quella di Putin in Russia bensì quella di Trump in America
ma, dicono i democratici e gli scandalisti, per colpa dell’appoggio russo alla
sua candidatura. Sospetto fino a ieri (e forse anche dopo) di “intrallazzi” con
il Cremlino, l’uomo della Casa Bianca ha cercato a lungo di diminuire la
portata delle insinuazioni, giunte ormai a mettere in piedi una inchiesta al
vertice che potrebbe metterlo sotto impeachment.
Oppure di una risposta tipo “arma segreta”, cioè del licenziamento del capo
dell’inchiesta oggi e del processo domani. Mentre Putin festeggia, insomma,
Trump si trova sotto assedio. Anche, ma soprattutto, in questa ultima domenica
elettorale.