Dazi: l’offensiva di Trump richiede una forte risposta dall’Europa
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 06 ottobre 2019
La battaglia commerciale in corso fra Stati Uniti e Europa nasce da un caso specifico ma è parte di un’ormai lunga guerra che, almeno per ora, non da segno di volere finire. La causa occasionale è la sentenza riguardante la lunga e nota controversia sui sussidi che l’Unione Europea avrebbe dato al Consorzio dell’Airbus. Questo è tuttavia solo un aspetto dell’ormai consolidata strategia americana di passare dal multilateralismo al bilateralismo sia in politica sia in economia.
Dal punto di vista economico la decisione di inasprire i dazi è strumentale all’obiettivo, più volte indicato dal Presidente Trump, di porre fine al pauroso deficit accumulato nel tempo dalla bilancia commerciale americana. Una strategia che dovrà probabilmente essere portata avanti per lungo tempo dato che le sanzioni e i dazi già messi in atto (ad esempio nei confronti della Cina e della Russia) non hanno dato fino ad ora i risultati rispondenti alle aspettative e hanno solo contribuito al rallentamento di tutta l’economia mondiale.
Nel caso dei rapporti con l’Unione Europea non ci si deve sorprendere che i dazi americani, che entreranno presumibilmente in vigore il prossimo 18 ottobre, comprendano beni (come i prodotti alimentari) che non hanno nulla a che fare con l’industria aeronautica e paesi (come l’Italia) che non fanno parte del consorzio Airbus.
Le guerre commerciali, come tutte le guerre, nascono per fare male e portano con sé l’ovvia conseguenza di provocare ritorsioni.
Per fare davvero male nulla è più adatto dei prodotti agricoli, che danneggiano un infinito numero di piccoli produttori i quali appartengono, a loro volta, al più grande numero possibile di paesi dell’Unione Europea. Quanto alle ritorsioni è ovvio che non possono mancare non solo per non dimostrare di essere del tutto perdenti ma perché sono l’unico strumento che può obbligare ad aprire future trattative in posizione paritaria.
Ricordo come a Bruxelles in casi analoghi, anche se di dimensioni assai più modeste, dedicavamo grande attenzione a scovare ritorsioni che non mettessero a rischio la lunga e fondamentale amicizia fra Stati Uniti e Unione Europea ma che, possibilmente, colpissero gli elettori di coloro che erano deputati a prendere le decisioni sul commercio.
Il fatto grave è che oggi questi episodi temporanei si sono trasformati in una strategia permanente, così aggressiva che sta ormai erodendo i lunghi rapporti di un’amicizia che esisteva ininterrotta nell’animo profondo sia degli europei sia degli americani.
Si sta infatti paurosamente accelerando ed accentuando un cambiamento che non si sa dove possa portare. Per la famiglia Bush e per Clinton, pur non mancando differenze di interessi, l’Europa era un insostituibile punto di riferimento anche se, nello stesso tempo, era considerata un fratello minore. Minore ma sempre un fratello. Con il presidente Obama siamo rimasti un amico ma considerati solo come una delle tante tessere della sua strategia mondiale: Amsterdam e Singapore erano per lui sostanzialmente equivalenti.
Trump ha compiuto un ulteriore passo in avanti, considerando l’Europa come un pericoloso nemico. Evidentemente non direttamente nel campo politico-militare, ma nel settore economico-commerciale. Da qui nascono i ripetuti attacchi alla Germania (in quanto maggiore responsabile del surplus nei confronti degli Stati Uniti) e il continuo e palese incoraggiamento all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea.
Si tratta di attacchi soprattutto economici perché Trump, nonostante abbia alzato la tensione in molti capitoli della sua politica estera, non ha intenzione di aprire conflitti armati in nessuna parte del mondo. I suoi elettori non gli perdonerebbero mai la perdita di vite umane per una guerra in terre lontane come nel caso dell’Iraq. Tuttavia gli stessi elettori lo sostengono con sempre maggiore entusiasmo nelle guerre commerciali. In modo quasi unanime nei confronti della Cina ma anche con un crescente favore nei confronti dell’Europa.
Se perciò accogliamo con un senso di parziale sollievo il fatto che qualche prodotto italiano prima minacciato sembri ora essere risparmiato dalla scure di Trump, ci dobbiamo tuttavia rendere conto che un’offensiva di questo tipo richiede necessariamente una risposta adeguata.
Questa risposta la può dare solo Bruxelles.
In primo luogo per la sua esclusiva competenza nel campo delle regole sul commercio ma soprattutto perché, solo operando insieme, noi europei abbiamo la forza di difendere i nostri interessi attraverso un negoziato che salvi almeno la parte essenziale del multilateralismo e delle libertà commerciali che hanno permesso uno sviluppo senza precedenti dell’economia mondiale.
Il fatto che l’uso dell’arma commerciale prevalga rispetto a strumenti ben più pericolosi può essere per l’Europa l’occasione per fare pesare la propria forza economica e fare sentire la propria voce. Purché i paesi europei si decidano finalmente a cantare in coro.